In Vietnam l'America vinse tutte le battaglie, ma perse la guerra. Israele oggi rischia la stessa sorte. A sei mesi dal 7 ottobre e dai massacri di Hamas il bilancio della guerra è talmente fallimentare che neanche la conta dei morti, usata a suo tempo dai comandi Usa per attribuirsi le vittorie, mitiga il disastro. A fronte dei 676 soldati persi in questi sei mesi Israele rivendica l'uccisione di diecimila militanti di Hamas, ovvero di un terzo della sua forza combattente, e di sette esponenti della sua dirigenza. Restano però inesaudite le tre fondamentali promesse messe sul tavolo da Bibi Netanyahu ovvero la cancellazione di Hamas, l'eliminazione dei suoi leader e la liberazione degli ostaggi.
Gli stessi comandi israeliani ammettono l'operatività di almeno sei battaglioni fondamentalisti attivi tra Rafah e il resto della Striscia. Mentre mancano all'appello i cadaveri di Yahya Sinwar e Mohammed Deif, ovvero il capo politico e quello militare di Hamas messi da Netanyahu in cima alla lista dei bersagli. E restano prigionieri almeno 129 ostaggi, una trentina dei quali probabilmente già morti. Ma le tre promesse mancate di Bibi - e la conseguente incapacità dell'esercito israeliano di recuperare la sua capacità di deterrenza - sono solo la punta dell'iceberg. Sotto di esso s'intravvedono fallimenti capaci di segnare oltre al futuro d'Israele, anche quello degli alleati occidentali e dei Paesi arabi moderati.
Il diktat con cui l'America, indiscusso alleato d'Israele, ha imposto il ritiro dal sud della Striscia ha, di fatto, sottratto l'ultima possibilità di vittoria al governo Netanyahu. Ed ha reso evidente lo scetticismo con cui l'Amministrazione Biden guarda alla condotta bellica dell'alleato. Lo stesso dicasi per un'Europa dove i governi, Italia compresa, devono vedersela con frange dell'opinione pubblica propense a simpatizzare non solo con i palestinesi, ma persino con Hamas. Uno smarrimento aggravato dall'incapacità del governo Netanyahu di proporre una soluzione politica accettabile per la gestione della Striscia al termine delle ostilità. E dall'ancor più grave rifiuto di accettare quella soluzione dei «due stati per due popoli» su cui nessuno da Washington a Bruxelles, passando per Londra, è più disposto a transigere.
Ma se Usa ed Europa piangono Gerusalemme non ride. I 34mila morti di Gaza, veri o falsi che siano, restano il miglior regalo a un Iran che usa la questione palestinese per conquistare le opinioni pubbliche sunnite. Mentre America e Israele si ritrovano a negoziare la questione ostaggi con un Qatar padrino di quella Fratellanza Musulmana che inneggiando ad Hamas e agitando le piazze mediorientali mette a rischio la stabilità dei paesi arabi moderati. Prima fra tutte quella di una Giordania dove la popolazione è al 50% di origine palestinese e di un Egitto dove le mancate entrate di Suez - conseguenza del blocco navale imposto dai missili Houthi - rischiano di portare il paese alla bancarotta.
Grazie agli errori di Bibi e alla spregiudicata determinazione dei suoi nemici il Medioriente
sembra, insomma, regredito di mezzo secolo in sei mesi. Mentre l'archiviazione degli accordi di Abramo, altra icona delle politiche di Netanyahu, torna a relegare Israele al ruolo di intoccabile della geopolitica regionale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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