Milano come Colonia. L'equazione era emersa subito dopo Capodanno quando s'intuì che gran parte dei responsabili delle violenze di stampo sessuale in piazza Duomo e dintorni erano giovani immigrati di seconda o terza generazione di origine mediorientale o nordafricana e di religione musulmana. Ma la grande domanda era quando e come si fosse creato l'«humus sociale» capace di generare anche nella città lombarda azioni di branco simili a quelle viste in Germania sei anni prima. O, per meglio dire, quali fattori avessero contribuito a ricreare nel capoluogo lombardo quell'effetto «banlieue» riscontrato in precedenza in Francia, Germania Gran Bretagna e in alcuni paesi del nord, ma non nel nostro paese. Per capirlo bisogna rivolgersi alla signora Luciana Lamorgese.
Non, però, alla Lamorgese ministro dell'Interno, bensì a quella che dal febbraio 2017 al novembre 2018 coordinò da Prefetto la piazza di Milano d'intesa con la giunta di centro sinistra del Sindaco Giuseppe Sala. In quei 20 mesi la Lamorgese utilizzò il capoluogo lombardo come banco di prova per un esperimento sociale, assai caro alla sinistra, battezzato «accoglienza diffusa». Alla base dell'esperimento vi era la convinzione, confermata dal Prefetto in un seminario della Diocesi di Milano, che «chi scappa dalla fame ha diritto a trovare condizioni di vita migliori». Un concetto umanamente apprezzabile, ma pericoloso se trasformato in regola dell'accoglienza. Declinato in quella forma porta infatti a cancellare qualsiasi differenza tra i migranti «regolari» in fuga da guerre persecuzioni e carestie, e quindi meritori di asilo in base alla Convenzione di Ginevra, e quelli invece da rimpatriare in quanto mossi dalla mera ricerca di condizioni di vita migliori. L'annullamento di quella sostanziale distinzione, punto cardine dell'accoglienza in tutta Europa, diventa ancor più pericolosa se a introdurla è il responsabile di una Prefettura da cui dipende la valutazione delle richieste di asilo. Ma alla generosità nel valutare e approvare le richieste d'asilo si aggiunse, durante il mandato del Prefetto Lamorgese, l'utopia dell'«accoglienza diffusa».
Il progetto, assai caro agli esponenti più a sinistra della giunta milanese come l'allora assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino, si basava sulla convinzione di poter garantire l'integrazione togliendo i migranti dal centro di Milano per disseminarli nei 134 comuni dell'hinterland. Il progetto, ben in linea con la geografia elettorale di un Pd che raccoglie consensi soprattutto nei centri delle grandi città, doveva però superare la comprensibile riluttanza dei sindaci. Fino a quel momento, infatti, soltanto 38 comuni avevano aderito all'«integrazione diffusa». Per superare quella riluttanza e ottenere una piena disponibilità la Lamorgese non esitò a rammentare ai sindaci meno collaborativi che tra i poteri del Prefetto rientrava l'eventuale apertura di Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) anche senza il consenso delle autorità locali. In questo modo Prefetto e Comune di Milano riuscirono a spostare nell'hinterland all'incirca 5mila migranti.
A fonte di questo risultato, apparentemente positivo, nessuno si preoccupò di considerare che lo spostamento di una simile massa di individui, in gran parte nord africani e musulmani, avrebbe generato quella difficoltà d'integrazione delle seconde e terze generazioni già registrati nel resto dell'Europa. E così, mentre la Lamorgese ha nel frattempo incassato la promozione a Ministro garantitagli dal Pd, Milano paga i suoi errori.
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