L'ergastolo. Di più: l'ergastolo al quadrato. Quello che riguarda i mafiosi, insomma i soldati sanguinari di un nemico in guerra contro il nostro Paese. I tecnici lo chiamano ergastolo ostativo: vuol dire fine pena mai, senza sconti e senza benefici. Sempre in cella, zero permessi, fino alla fine dei propri giorni. Ora la Corte di Strasburgo dice che questo trattamento durissimo va contro l'articolo 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo. Il carcere deve tendere, almeno come prospettiva, alla riabilitazione del condannato: si deve dare la possibilità di seguire un percorso che preveda infine l'addio alle sbarre. Invece, in un Paese dalla storia tormentata come il nostro, l'ergastolo ostativo blinda soprattutto i boss di Cosa nostra e i terroristi.
La questione, va da sé, è ardua. Il legislatore italiano, di solito buonista, ha trovato una via d'uscita al dilemma e la soluzione si chiama collaborazione. Tradotto in soldoni, il criminale che si è macchiato di reati pesantissimi, ad esempio l'omicidio aggravato dall'associazione mafiosa, spesso con l'aggiunta del 41 bis, deve abiurare. E fare i nomi degli affiliati alla cosca o al movimento eversivo cui apparteneva. Quella è la porta verso un regime di detenzione meno afflittivo e verso la libertà, su quella scelta si misura in qualche modo il cambio di passo della persona in questione. Su questo versante la Corte costituzionale ha promosso l'ergastolo ostativo, ritenendo che non confligga con i valori della nostra Carta.
Strasburgo la pensa diversamente e si mette di traverso con un ragionamento che va oltre: la scelta di abbandonare il circuito del malaffare non sempre è «libera», perché alcuni condannati temono che il loro pentimento metta a rischio «le loro vite e quelle dei loro familiari». Inoltre, la collaborazione non implica automaticamente che il detenuto «non sia più fedele a valori criminali o abbia tagliato i ponti con organizzazioni di tipo mafioso». Insomma, ogni essere umano è più grande del male che ha compiuto e in qualche modo questo dato dev'essere riconosciuto. Ci dev'essere uno spiraglio di luce in fondo alla macerazione in cella.
Lo Stato italiano ha un altro punto di vista: non basta la coscienza dei disastri compiuti, ci dev'essere un passo in più, qualcosa di concreto e tangibile, appunto l'abbandono del sodalizio criminale.
Strasburgo in verità lascia ai singoli stati la facoltà di decidere la pena massima: possono essere trent'anni, pure quaranta, l'importante è che la fine della pena non coincida con la morte di chi la sconta. E questo, obiettivamente, pare ragionevole.
La storia che sta all'origine di questa querelle è quella di Marcello Viola, condannato negli anni Novanta per omicidi, sequestri di persona, associazione mafiosa e oggi, a quanto sembra, una persona diversa. Ma la buona condotta non è sufficiente per riguadagnare la libertà che gli è sempre stata negata. Ci vorrebbe qualcosa in più, ci vorrebbero i nomi, pagine e pagine di verbale, il racconto di quel mondo e di quelle sciagurate imprese.
Così Viola non si muove, ma per la Corte «è inammissibile privare le persone della loro libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura». Magari lontana, ma certa. A tutela della loro dignità.
Viola resta in carcere e nessuno mette in discussione il suo
curriculum ma Roma dovrà dargli 6mila euro come indennizzo per avergli inflitto un trattamento «inumano e degradante». La questione non è chiusa: il 22 ottobre la Consulta si pronuncerà ancora su questo spinosissimo tema.
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