Da una parte dello schermo un presidente cinese innalzato al rango di semidio del comunismo da quel comitato centrale che l'ha appena equiparato a Mao e Deng Xiaopin. Dall'altra un presidente statunitense ai minimi del consenso la cui guida incerta e confusa divide non solo l'America, ma persino lo stesso partito democratico. Nell'abisso che separa la statura dei due protagonisti si sta incagliando il summit virtuale di oggi tra Joe Biden e Xi Jinping. Il vertice - a differenza di quanto illusoriamente annunciato a Glasgow dopo un Cop26 assai inconcludente - si sta occupando solo marginalmente della questione climatica. Al centro del complesso colloquio, destinato a durare parecchie ore, c'è soprattutto Taiwan, la Danzica del Pacifico che rischia di trascinare alla guerra le due principali potenze mondiali. L'abisso di popolarità e autorità che divide i due leader è però l'incognita più pesante e pericolosa. Proprio per questa disparità di fatto la discussione promette di chiudersi con un nulla di fatto, se tutto andrà per il meglio, o con ulteriore irrigidimento se tutto andrà per il verso sbagliato. Una cosa è però certa, su Taiwan nessuno dei due leader può permettersi un passo all'indietro. Non sicuramente un Xi Jinping che da sempre invoca l'annessione dell'isola come un passo indispensabile per «il ringiovanimento della nazione cinese». E tanto meno un Biden che dopo l'umiliazione afghana, il ribaltone elettorale in Virginia e il pesante tracollo sul fronte degli indici di gradimento non può incassare altre debacle. Il diverso status dei due duellanti regala però un margine di vantaggio ad un Xi Jinping in grado di vincere anche mantenendo inalterate le posizioni attuali. «L'amministrazione Biden non sta cercando di cambiare la Cinastiamo cercando di modellare l'ambiente internazionale in un modo che sia favorevole a noi e ai nostri alleati e partner» - spiegava un funzionario dell'Amministrazione illustrando i limitati obbiettivi di Washington. Ma accettare, come propone Washington un regola di condotta nello scontro su Taiwan evitando imprevedibili e pericolose escalation militari non impedirà a Xi Jinping di continuare quelle incursioni aeree sull'isola con cui soddisfa l'orgoglio nazionale e mantiene vivi i sentimenti annessionisti. In cambio ascolterà un Biden pronto a insistere per ottenere la fine delle violazione dei diritti umani. Quel richiamo non impedirà a Pechino di continuare le deportazioni nei campi di lavoro e le campagne di sterilizzazioni delle donne che stanno trasformando in autentico genocidio la campagna repressiva ai danni della minoranza musulmana degli uighuri. Il cambiamento climatico, vista la sensibilità internazionale al tema, sarà, alla fine, la foglia di fico destinata a coprire la sostanziale mancanza di risultati sugli altri fronti.
Ad un Xi Jinping che ha appena ordinato la produzione supplementare di cento milioni di tonnellate di carbone per garantire energia elettrica alle proprie aziende costerà poco concordare con Biden una teorica intesa sul contenimento delle emissioni di anidride carbonica. Che, da qui al 2050, avrà, come sempre, il tempo di non rispettare.
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