Addio alla facili ironie che gli ribaltavano addosso la sua invettiva («Capra!»), e buonasera agli spiritosoni che proponevano al governo di arruolarlo per certificare disinvoltamente anche i vaccini per il Covid. Vittorio Sgarbi esce in fretta e a testa alta dall'inchiesta che lo vedeva accusato della macchia più grave per un critico d'arte: avere preso lucciole per lanterne, avere scambiato una crosta per un capolavoro, o - ancora peggio - avere callidamente spacciato per buone opere fasulle, attribuendo all'artista defunto quadri abborracciati da chissà chi.
L'indagine della Procura di Roma sulle opere di Gino De Dominicis, artista poliedrico e inclassificabile (nel 1972 espose alla Biennale un down) va avanti: ma il giudice preliminare sul cui tavolo approda la richiesta di rinvio a giudizio avanzata con clamore dalla Procura di Roma sfila Sgarbi dal folto mazzo degli imputati. Vengono tutti rinviati a giudizio tranne Sgarbi e Duccio Trombadori, figlio del deputato comunista Antonello, e come Sgarbi parte del circolo che da anni si accapiglia sul lascito artistico di De Dominicis, morto nel 1998 in circostanze che Sgarbi definisce «misteriose»: e come sovente accade il dibattito accademico porta con sé questioni più venali, eredità, expertise e quant'altro. Di quanto accaduto intorno alle opere vere o presunte di De Domicis dovrà occuparsi il tribunale di Roma, al cui giudizio vengono rinviati diciannove imputati. Ma Sgarbi e Trombadori escono di scena.
Peccato, da un certo punto di vista: perché rimuove dal palinsesto uno show in aula del critico-deputato che si annunciava imperdibile, visto che nei giorni scorsi - dopo che la notizia dell'inchiesta a suo carico era finita sui giornali - Sgarbi aveva definito l'inchiesta «il trionfo dell'incompetenza di magistrati, carabinieri e falsi esperti. I quali non hanno idea di quello di cui parlano».
Del fatto che qualcosa non abbia funzionato a dovere, nella valutazione e nello smercio delle opere di De Dominicis, il giudice pare comunque convinto, visto il folto numero di rinviati a giudizio: che in qualche modo certifica l'inchiesta del pm romano e del nucleo culturale dell'Arma, nata dalla denuncia di Paola De Dominicis, cugina e unica erede dell'artista. Ma con Sgarbi il processo perde non solo la preda mediaticamente più ghiotta e le ricadute politiche (essendo Sgarbi candidato in pectore all'assessorato alla Cultura di Roma), ma anche il pezzo principale, perché dei 170 certificati sequestrati dai carabinieri, ben 119 portavano la firma del deputato del gruppo misto. Certificati che secondo le telecamere dei carabinieri Sgarbi avrebbe firmato uno dopo l'altro, nella hall di un albergo milanese, senza esaminare neanche in fotografia le opere di cui garantiva l'autenticità. «Le mie perizie - aveva replicato Sgarbi alle notizie di stampa - sono perfette e incontestabili, anche se le avessi fatte su un piede solo. Di falsi non ce n'è neanche uno». L'indignazione del critico, d'altronde, tracimava già dalle telefonate con cui nel 2014, appena appreso di essere sotto inchiesta, aveva bombardato il comandante generale dei carabinieri e il ministro della Difesa per protestare contro gli abusi ai suoi danni: telefonate ovviamente intercettate dai pm e finite anch'esse nel faldone dell'indagine.
Bisognerà attendere le motivazioni dell'ordinanza di ieri per capire in che passaggio della vicenda il giudice spezzi la catena delle colpe, ritenendo vistose quelle dei diciannove coindagati, e quelle di Sgarbi e Trombadori talmente fumose da non meritare neanche il vaglio di un processo. Ma si sa che l'arte non è una scienza esatta, e il confine tra l'opinione e la certezza è sfumato come certi tramonti di van Gogh.
E tutto diventa ancora più complicato quando si parla di un artista come De Dominicis, uno che - a dirlo è sempre Sgarbi - più che opere produceva pensieri. Come quello secondo cui «tutto ciò che esiste non esiste davvero». Come in questo caso.
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