Se una donna di destra sia veramente una donna, se possa essere considerata femminista, se possa rappresentare un progresso per tutta quanta la condizione femminile, se il fatto di sedere sulla poltrona di primo ministro produrrà un cambiamento positivo di mentalità, di ruolo, di struttura... è un dibattito vecchio, ma di scarso senso comune, come spesso i dibattiti ideologici.
È chiaro che avere una donna premier, come è stato con Indira Gandhi, con Golda Meir, con Margaret Thatcher, persino con la giocosa Sanna Marin, suscita ammirazione, emulazione, apre la mente, cambia i costumi. Induce cioè a considerare come un'indicazione di comportamento sociale quella semplice identificazione di ruoli che, detta dalla Meloni, ha creato uno strano scandalo: «Sono una donna, sono una madre».
Libera scelta, giusto? Ma già in L'origine della famiglia di Friedrich Engels e nell'Unione Sovietica, nello schiacciamento sociale e teorico delle masse di donne inquadrate nel regime e nei suoi derivati internazionali, si spiega con determinazione che la liberazione femminile è inscindibilmente connessa al cambiamento radicale, socialista, del sistema economico. Nel passato si diceva: «La liberazione della donna e impensabile senza il comunismo, e il comunismo senza la liberazione della donna». Questo modo di pensare si è sviluppato, si è trasformato in forme che collegano indissolubilmente la sinistra al femminismo, fra cui oggi quella più popolare è quella dell'«intersezionalità», per cui il gender, il colore, la preferenza sessuale - tutte identità peraltro molto egoisticamente concluse e anche razziste - si uniscono contro l'«oppressione»: Giorgia Meloni, non essendo di sinistra, è destinata per forza a essere oppressore, non un'oppressa. Che sia una donna energica con proprie scelte autonome conservatrici, risulta più che discutibile, direi insopportabile.
Le contraddizioni sono palesi: le grandi conferenze internazionaliste di sinistra, sulla scia dell'internazionalismo socialista, gloriosamente palesavano donne la cui condizione, in società islamiche, sudamericane, africane, mediorentali, era di oppressione, di sofferenza: ma della loro cultura non si parlava né si parla, solo del colonialismo e dell'imperialismo. Da quelle conferenze, le donne israeliane, femministe di kibbutz, scienziate e artiste, o le americane, venivano cacciate via e sbeffeggiate. Da altre donne, che si fregiavano del titolo di femministe e - paradossalmente - pacifiste.
Oggi, quando si nega alla Meloni la sua caratteristica di donna fra le donne perché è di destra, si ribadisce il pregiudizio che non possa esistere un femminismo liberal-conservatore, che invece ha espresso leader politiche, pensatrici, accademiche. Ma attenzione: la metà «liberal» è importante.
Perché anche tra i conservatori deve vigere il rispetto per la diversità e la libera scelta, le proprie rispettabili scelte religiose non possono sconfinare nel restringimento della libera scelta altrui: la famiglia tradizionale, la maternità tradizionale sono bellissime cose, ma ormai si sono legittimati tanti modi di esistere. E meno male che è così. Lasciamo agli ayatollah le punizioni sui comportamenti personali, dato che la libertà è la prima scelta del conservatore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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