Allacciate le cinture, tirate su il bavero e mettete a letto i bambini. Si parte. Ma la grande corsa al Colle comincia nella nebbia, anzi nel buio totale. Non c'è un nome su cui puntare un cent, solo aspirazioni varie e pretendenti ancora nascosti. Non c'è un accordo tra le parti e nemmeno uno straccio d'intesa sul metodo da seguire, sulle regole d'ingaggio, insomma sul campo da gioco. E non c'è neanche una data, così per decretare il via ci si accontenta della lettera che domani, trenta giorni prima della scadenza del mandato di Sergio Mattarella, il presidente della Camera Roberto Fico spedirà per convocare il Parlamento in seduta comune, probabilmente dal 17 in poi. Forse il 20, magari il 24, i 1007 grandi elettori, Covid permettendo, cominceranno quindi ad affollarsi ai «catafalchi» che verranno allestiti a Montecitorio.
In realtà i nomi ci sono: Berlusconi, Draghi, Cartabia, Pera, Franceschini, Gentiloni, Franco, Amato, etc, anzi, tra candidati veri, con reali possibilità di vittoria, e figure di contorno sono pure troppi. E gli schemi sono sostanzialmente due, intesa larga e trasversale o muro contro muro: però stavolta nessuno dei due blocchi, centrodestra e centrosinistra più M5s, dispone sulla carta della maggioranza semplice, richiesta dal quarto scrutinio. 504, la metà più uno di 1007, e cioè 629 deputati (il 630simo è quello del dem Roberto Gualtieri, non ancora sostituito dopo che è diventato sindaco di Roma) 320 senatori, dei quali sei a vita e 314 eletti, e 58 delegati locali indicati dalle Regioni. Alleanze difficili, maggioranze frammentate, franchi tiratori appostati: tutti gli occhi saranno per i centristi e i parlamentari dei gruppi misti.
Il Cavaliere non si è ufficialmente candidato però al tempo stesso è il candidato naturale di quel centrodestra che lui ha creato e che nei prossimi giorni, attorno alla Befana, si riunirà per fare il punto della situazione. Silvio Berlusconi parte, partirebbe, con 450 voti della coalizione. Gliene mancano, mancherebbero, una sessantina scarsa, non una mission impossible. Contemporaneamente, discretamente, si stanno aprendo i tavoli per un accordo ampio. In questo scenario Mario Draghi è, sarebbe, il favorito, se non fosse che per salire al Quirinale dovrebbe lasciare Palazzo Chigi mentre infuria la pandemia e abbandonare a metà il Pnrr. E non è mai successo che un capo del governo in carica diventasse capo dello Stato. I partiti si sono già messi di traverso. «Forza Italia ha una grandissima stima in Draghi - spiega alla Stampa Mariastella Gelmini, ministro per gli Affari regionali - Ha lo standing e la capacità per ricoprire qualsiasi ruolo ed è un eccellente presidente del Consiglio. Il problema è la difficoltà di sostituirlo in un momento così delicato alla guida del governo. E al Paese serve stabilità, la legislatura deve arrivare a conclusione naturale».
Dunque SuperMario «non ha alternative». Non sembra un'alternativa Daniele Franco: il ministro dell'Economia è quello che ha materialmente preparato il dossier del Piano di rinascita, ha ottimi rapporti con Bruxelles, è stimato dai mercati, ma non ha certo il peso e il prestigio internazionale di Draghi.
E non lo è nemmeno Marta Cartabia, oggetto di diverse discussioni nei contatti informali degli ultimi giorni, sia per il Colle che per Palazzo Chigi. I precedenti non la aiutano: finora nessun presidente della Corte Costituzionale e nessun ministro della Giustizia è mai arrivato al Quirinale. E nessuna donna.
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