Il fisco prova ad andare in Meta, con la richiesta di 870 milioni di euro al gruppo che fa capo a Mark Zuckerberg. Questione di Iva non versata, ma anche vexata quaestio poiché trattasi di materia delicata, opinabile e dove il diritto non dà certezze né punti di riferimento. Motivi sufficienti per indurre l'Italia a chieder lumi al Comitato Iva della Commissione europea, chiamato a compulsare un faldone i cui punti forti sono il mancato versamento nel 2021 di 220 milioni dell'imposta sul valore aggiunto, che diventano appunto 870 nell'arco temporale che va dal 2015 al 2021.
L'impianto accusatorio è basato su un assunto semplice: il colosso di Menlo Park ha un modello di business miliardario (oltre 30 miliardi di dollari) centrato sulla raccolta dati degli utenti, con Facebook, WhatsApp e Instagram che ne sono i formidabili catalizzatori. Si tratta di una massa ciclopica che costituisce il prezzo da pagare per far parte dei «Zuckerberg's Club», di cui di gratuito c'è solo l'iscrizione. Un po' come quei contratti con le clausole scritte così piccole che poi ti tocca l'oculista. Nomi, cognomi, date di nascita, di matrimonio e di divorzio, residenze extra-urbane, numeri di telefono, inclinazioni sessuali, politiche e sportive costituiscono un centrifugato di informazioni e di esperienze che Meta non tiene lontano da occhi indiscreti. Anzi, lo scopo è esattamente il contrario. Come ammesso candidamente davanti al Congresso Usa dallo stesso Zuckerberg nel 2018, «Facebook fa i soldi con i dati». Nel modo più elementare: cedendoli a soggetti terzi, commercialmente interessati a sfruttare anche i commenti, le condivisioni e i «like». E finanche un emoticon a corredo di un foulard. Serial killer e potenziali clienti si acciuffano nello stesso modo: incrociando e profilando i dati. Così, nel terzo millennio impera il «dimmi come chatti, e saprò chi sei».
Se questo è il meccanismo, secondo il parere della Guardia di Finanza le registrazioni degli utenti Meta sono assimilabili a una transazione imponibile, dal momento che implicano uno scambio non monetario di un conto di abbonamento con i dati personali dell'utente. Da qui la richiesta milionaria per mancato versamento dell'Iva. Meta per ora tace, forse perché alle prese con la multa da 5 milioni e 850mila euro inflitta ieri dall'Agcom per violazione del divieto di pubblicità del gioco d'azzardo, previsto dal decreto Dignità. Il gigante a stelle e strisce ha peraltro dalla sua un pronunciamento di cinque anni fa con cui, proprio il Comitato Iva della Ue, respinse con perdite una analoga richiesta presentata dalle autorità tedesche.
I tempi e le cose possono però prendere una piega diversa dopo un quinquennio.
Un eventuale cambio di rotta da parte di Bruxelles avrebbe riflessi non indifferenti in ambito comunitario, visto che l'Iva è un'imposta armonizzata a livello europeo. Una «sentenza» a favore dell'Italia sarebbe quindi estensibile alle altre piattaforme internet, con modalità simili a Facebook&Co., in tutti i 27 Paesi dell'Unione. Almeno per una volta, uniti alla Meta.
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