«Dopo la laurea sono stata in Inghilterra. All'estero ci apprezzano molto, ma quando parli di come vanno le cose in Italia, ridono». E hanno pure ragione. Anna Flaminio non si spinge a tanto, ma nella voce dei suoi 24 anni l'amarezza prevale sul pudore patriottico.
A lei il Fisco ha appena presentato il conto. Due note, una per il padre operaio l'altra per la madre dipendente Asl, per un totale di 5.000 euro. Pretesi, tra sanzioni e somme da restituire, per non aver inserito nel 730 una borsa di studio della figlia, quasi 1.500 euro. «Quando abbiamo ricevuto le comunicazioni», racconta, «non riuscivamo a capire cosa volessero». Succede, dato che gli enti non si parlano fra loro. In questo caso, l'Agenzia delle entrate e l'Inpdap, quattro anni fa assorbito dall'Inps. Ed è proprio quello il periodo in cui si consuma il pastrocchio. Anna Flaminio è una studentessa modello. Per anni ogni giorno ha macinato una quarantina di chilometri tra la sua Brendole, paesino di 6.000 abitanti, e Vicenza. Allieva del magistrale Don Giuseppe Fogazzaro, nel 2011 s'era diplomata col massimo dei voti, iscrivendosi all'università, al corso di tecniche di radiologia medica. Come i tre fratelli, aveva goduto di borse di studio. La fondazione Domenico Corà la sosteneva con un assegno annuo da 1.500 euro. Altrettanti, nel fatidico 2012, glieli concede l'Inpdap. Inizia il calvario.
«L'anno dopo, al momento di stilare la dichiarazione dei redditi», ricorda Anna, «il Caf che cura il 730 di mamma e papà menziona la borsa di studio della fondazione», non l'altra. «L'Inpdap non ci ha mai mandato alcun cedolino né nel bando era specificato l'obbligo di denuncia», spiega carte alla mano. Intanto il tempo passa. Lei si laurea, parte per l'estero, torna in Veneto. E nel 2016 due diffide, con la sollecitazione ai genitori a pagare poco più di 5.000 euro per le detrazioni indebitamente godute ed a titolo di multa per il trucchetto escogitato. Quale? Omettere di segnalare la seconda borsa di studio. A nulla vale osservare che se mancanza c'è stata è stata indotta dalla burocrazia. Per la quale è carta straccia persino la legge con cui, dal 1991, le borse di studio sono considerate esentasse. «Sì, ma non tutte», provano a giustificarsi gli impiegati quando i Flaminio iniziano la loro processione da uno sportello all'altro in cerca di chiarimenti. «Siamo andati non so più quante volte sia all'Inps sia all'Agenzia delle entrate», conferma sconsolata la giovane vicentina. «Pur di definire la questione, ci siamo detti disponibili anche a restituire i 1.500 euro». Troppo facile, nel mondo dell'assurdo. «Non si può», infatti, la risposta. «Abbiamo presentato un'istanza per chiedere una correzione.
Staremo a vedere», si congeda Anna, tenendosi alla larga dai tecnicismi e dalla possibilità di portare il Fisco davanti alla Commissione tributaria. Una storia così non avrebbe mai potuto neppure immaginare di viverla. Figurarsi, poi, di raccontarla fuori dall'Italia: chi ci avrebbe creduto?
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