Game over. Il M5s, dopo aver spaccato se stesso con la scissione interna, demolisce la maggioranza che sostiene il governo Draghi. Un harakiri che si consuma con la decisione di non votare la fiducia all'esecutivo sul Dl Aiuti. Uno strappo che, alla fine di una giornata segnata da disperati tentativi di ricucitura, rende inevitabile l'addio del presidente del Consiglio.
L'annuncio arriva in serata, dopo un lungo colloquio con Sergio Mattarella, un confronto lungo un'ora in cui il Capo dello Stato cerca in tutti i modi di mitigare l'esasperazione dell'ex numero uno della Bce, senza scalfire la convinzione, espressa in maniera perentoria, che per andare avanti «è necessaria una maggioranza coesa». Mario Draghi si presenta in Consiglio dei ministri e annuncia: «Stasera rassegno le dimissioni. Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico. La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c'è più». Le condizioni per realizzare il programma «non ci sono più ma dobbiamo essere orgogliosi per il lavoro svolto», dice, incassando l'applauso dei presenti.
È lo stesso presidente del Consiglio, fin dalla mattinata, a far capire di non essere disposto a prestarsi a stanchi riti di sopravvivenza o a mediazioni di piccolo cabotaggio. Il premier comunica al ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà - alla ricerca di una mediazione con una votazione per parti separate - che non esistono alternative alla fiducia. Nessun piano B è possibile, è il messaggio del premier. Non si può stare con un piede dentro e uno fuori dalla maggioranza.
L'Aula del Senato vota la fiducia al governo. I sì sono 172, i no 39, ma nessuno dei Cinquestelle partecipa al voto: tutti assenti alla prima e alla seconda chiama. Una presa di posizione a cui non fanno seguito le dimissioni di ministri e sottosegretari, una acrobazia che fotografa i dubbi all'interno dei gruppi pentastellati. Dei 61 senatori M5s 15 risultano in missione o in congedo, tra cui il ministro Patuanelli, e 46 assenti. Beppe Grillo appoggia la scelta.
La giornata parlamentare, peraltro, si apre con un nuovo «addio»: la senatrice Cinzia Leone abbandona i Cinquestelle e passa con i dimaiani. Il dibattito in Senato, secondo copione, si sviluppa tra accuse incrociate e rancori vecchi e nuovi che vengono alla luce. Matteo Renzi, ad esempio, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, sia sulla genesi del governo Draghi che sulla politica delle alleanze del Partito democratico. «Il Pd vedendo il comportamento di Conte dice che fa fatica capire le ragioni della crisi. Anche noi. Ma vedendo il comportamento di Conte spero che abbiate capito le ragioni della crisi dello scorso anno. Feci anch'io la crisi con il Conte 2, ma i miei ministri si dimisero. Il Pd può uscire dal tunnel della subalternità rispetto al punto fortissimo di riferimento dei progressisti. Tornate al riformismo che non potrà mai essere populismo». Chi punta il dito con durezza contro l'incoerenza di Giuseppe Conte e dei Cinquestelle è Anna Maria Bernini. «Abbiamo assistito a due giorni di non lucida follia che hanno un nome e un cognome: Movimento cinquestelle. Beppe Grillo direbbe dimettetevi e fatevi accompagnare un'ultima volta a casa con le auto blu pagate dai contribuenti. La verità vi fa male e la coerenza vi difetta». Scattano proteste e fischi e dai banchi pentastellati, con la presidente Casellati costretta a intervenire. Mette il dito nella piaga anche il gruppo di Luigi Di Maio. «È ridicolo che il ministro per i Rapporti con il Parlamento annunci la fiducia e la capogruppo M5s annunci che non la voterà» dice il capogruppo Primo Di Nicola.
Naturalmente ora gli occhi sono puntati sul futuro immediato. Draghi comunica che mercoledì riferirà in Parlamento. I partiti, e lo stesso Sergio Mattarella non disperano di riuscire a indurlo a un ripensamento, con il capo dello Stato che intanto lo rinvia alle Camere. Qualcuno azzarda che la suggestione quirinalizia, proiettata su un futuro non troppo lontano, potrebbe tornare di attualità, ma si tratta soltanto di voci.
Le dimissioni di Draghi potrebbero, in ogni caso, subire un ritardo a causa del vertice intergovernativo in Algeria del 18 e 19 luglio, fissato per stringere nuovi accordi sul gas che non possono essere sottoscritti da un premier dimissionario.
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