«Fermezza»: la parola scelta dal neo ministro dell'Educazione nazionale, Gabriel Attal, per annunciare che «l'abaya non ha posto nelle scuole» segna un cambio di passo rispetto alle titubanze che lo scorso anno scolastico avevano contraddistinto le (non) scelte dell'esecutivo d'Oltralpe sul dilagare della tunica araba in uso in varie zone del Golfo e del Maghreb nelle classi francesi. Copre quasi tutto il corpo delle donne e per il governo, visto l'aumento esponenziale, rappresenta ormai un'offensiva ideologica. Un «corpo estraneo» (tollerato) nella pur rigida laicità dei plessi francesi, che nell'ultimo anno scolastico aveva costretto i docenti a far appello al governo, chiedendo di chiarire se si doveva intervenire impedendo l'accesso in classe con la tunica, finora non espressamente considerata un simbolo religioso.
Il problema era che la circolare non era così chiara e non trattandosi di hijab o burqa tutto veniva lasciato all'iniziativa dei più intrepidi professori, esposti però alle recriminazioni delle studentesse che rivendicavano la libertà di vestirsi come meglio credessero in nome della libérté, con la sinistra di Jean-Luc Mélenchon che difendeva per esempio le musulmane invocando la volontà di coprire le forme in un periodo di mutamento del corpo delle adolescenti. Peccato che il governo avesse già annusato che dietro l'abaya si celava un nuovo fronte di sfida alla République: sentore suffragato da sociologi delle religioni ed esperti dell'estremismo islamico, che già l'anno scorso documentavano la sua rapida diffusione nelle scuole, soprattutto nelle banlieue, come parte di un piano per far avanzare l'islam politico nella società francese.
Ieri il ministro Attal è stato categorico. Ha chiarito in conferenza stampa che «gli attacchi al secolarismo sono aumentati considerevolmente», dicendo che la scuola è stata «messa alla prova», annunciando un piano di formazione per i 14mila dirigenti scolastici «entro la fine dell'anno» (per mettere nero su bianco il divieto dell'abaya) e di 300mila dipendenti l'anno sulle questioni della laicità fino al 2025. Stop indecisioni. «Unirsi significa essere chiari - sostiene Attal - l'abaya non ha posto nelle nostre scuole». Il tema resta però controverso. Le moschee dicono che è simile a un kimono. Perciò ieri anche il portavoce del governo, Olivier Véran, ha tagliato corto bollando l'abaya come «abito chiaramente religioso», cancellando le indecisioni di chi l'aveva finora tollerato per evitare problemi. I Servizi dello Stato documentano attacchi crescenti alla laicità cresciuti dopo l'assassinio del professor Samuel Paty nel 2020: +120% tra l'anno scolastico 2021/2022 e 2022/2023. Nell'ultimo, l'uso delle tuniche è aumentato di oltre il 150%. «Non si va a scuola per fare proselitismo religioso, ma per imparare - insiste Véran - la scuola è un tempio della laicità». «Dichiarazioni tristi», secondo il leader della sinistra Jean-Luc Mélenchon, «polarizzeranno solo lo scontro dando il via a un'assurda guerra di religione». La N.1 dei deputati della France Insoumise, Mathilde Panot, denuncia «l'ossessione per i musulmani» del governo, accusandolo di islamofobia. Gli ecologisti bocciano «la logica dell'esclusione e della stigmatizzazione».
Comunisti e socialisti appoggiano invece il divieto, come la destra neogollista, con cui la Macronie proverà ora a trovare convergenze anche sull'immigrazione: i Républicains avevano «più volte chiesto la messa al bando dell'abaya nelle scuole, e oggi il ministro ci dà ragione», rivendica Eric Ciotti, segnalando una svolta a destra dell'esecutivo.
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