Almeno a parole, la pressione esercitata da Joe Biden sui partner europei per mettere in un comune mirino la Cina di Xi Jinping ha sortito i suoi frutti. Le parole sono quelle, pesanti come macigni per Pechino, scritte nel comunicato finale del G7 in Cornovaglia: Hong Kong, Taiwan, Mar Cinese Meridionale, uiguri, Covid-19, pratiche commerciali sleali. Tutti temi assai caldi su cui la ritrovata alleanza occidentale usa una voce sola per denunciare le politiche autocratiche o di scarsa trasparenza della Cina, e per chiederne senza mezzi termini un cambio di direzione. È la prima volta ed è un chiaro segno dei tempi che cambiano - che i Sette non soltanto criticano così esplicitamente Pechino in un comunicato finale ufficiale, ma semplicemente la citano. E devono essere sottolineate le frasi usate per la Ue da Ursula von der Leyen («il G7 e la Cina sono forti concorrenti in campo economico e rivali sistemici» in fatto di democrazia) o dal presidente francese Emmanuel Macron, secondo cui il G7 «non è un club ostile alla Cina, ma esistono divergenze in merito al rispetto dei diritti umani e al lavoro forzato».
Ma oltre alle parole ci sono anche i fatti: nella bozza si legge infatti non solo che il G7 s'impegna a proseguire le consultazioni al suo interno per reagire insieme ai comportamenti iniqui di Pechino in ambito commerciale, ma si trova anche un riferimento alla promozione dei valori occidentali del rispetto delle libertà fondamentali: il G7 si è insomma «ricordato» che la Cina è una dittatura comunista dedita al mercantilismo, e ne denuncia le storture. Nelle parole di Mario Draghi, «nessuno disputa che la Cina ha diritto di essere una grande economia, ma quello che è stato messo in discussione sono i modi che utilizza (): bisogna essere franchi, cooperare ma esser franchi sulle cose che non condividiamo». Lo stesso Draghi ha ricordato che il memorandum di collaborazione firmato dal suo predecessore Giuseppe Conte sulla «Via della Seta» non è stato menzionato durante il G7, e che nello specifico «lo esamineremo con attenzione»: tira dunque aria di ripensamenti e di allineamento alla nuova strategia alternativa occidentale che va sotto lo slogan di «Build Back Better World». Un'alternativa globale ha ricordato la presidente della Commissione Europea Von der Leyen che «al contrario della strategia cinese sarà senza vincoli per i Paesi partner».
Nei toni della replica giunta a stretto giro di posta da Pechino c'è tutta la stizza nei confronti di questa apparente svolta unitaria: «Sono finiti da molto i tempi recita un comunicato in cui le decisioni globali venivano prese da un piccolo gruppo di Paesi». Segue un invito, dal tono assai ipocrita in verità, a lasciare che gli affari mondiali siano gestiti in modo paritario tra tutti i Paesi «grandi o piccoli, forti o deboli, poveri o ricchi»: è la linea ufficiale cinese in tema di multipolarità, che tende a negare la storica egemonia occidentale e cerca di farsi paladina dei Paesi deboli e poveri: una sfida che il G7 ha ora raccolto soprattutto su impulso americano.
Difficile dunque che Xi sia disposto a raccogliere l'offerta di collaborare su temi di comune interesse come la gestione dei cambiamenti climatici e delle biodiversità in cambio di compromessi ad esempio su Hong Kong (tema caldeggiato soprattutto da Londra, che denuncia il tradimento cinese degli impegni sottoscritti nel 1997 al rispetto delle libertà democratiche nella ex colonia britannica per 50 anni) o su Taiwan, che Xi minaccia di aggredire per annetterla.
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