Giallorossi pronti a lasciarsi. L'ultima lite prima dell'addio

Lo scontro in commissione e lo sfogo dei senatori dem: "Con voi non si ragiona". Il campo largo è già finito

Giallorossi pronti a lasciarsi. L'ultima lite prima dell'addio

Questa è una piccola storia, che va giù lentamente come una slavina, ma racconta meglio di tante altre le vicissitudini del «campo largo» di Enrico Letta. Il Pd e i grillini di Conte non riesco a incontrarsi. È il segno che in politica neppure i matrimoni di interesse sono scontati.

Siamo nella commissione lavori pubblici e trasporti del Senato. Tira da qualche settimana una brutta aria. I rapporti tra gli strambi alleati sono pessimi. Non ci sono ragioni di merito, ma di pennacchio. C'è da convertire in legge un decreto di quelli urgenti e dove girano tanti soldi. L'idea è di rimettere in sesto strade e ferrovie italiane e una serie di altre cose. Il nome del provvedimento ricorda i romanzi distopici: Mims 2. Per fortuna la burocrazia spiega poi di cosa si tratta ma bisogna avere un po' di pazienza per arrivare alla fine. «Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti e della mobilità sostenibile, nonché in materia di grandi eventi e per la funzionalità del ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili». Se non ci si è persi si tratta di lavori di manutenzione e di progettazione per cose tipo olimpiadi (invernali) e affini. Non sono cose da nulla visto che poi i ponti crollano, i treni deragliano e i fiumi, dopo la siccità, esondano. Non è questo però il punto essenziale della lite. Non si fa in tempo quasi a sedersi che Salvatore Margiotta e Vincenzo D'Arienzo, senatori Dem, lasciano la stanza. La frase che si sente in sottofondo è un «con voi non si può ragionare». Che succede? Mauro Coltorti, presidente cinquestelle della commissione, ha scelto come relatore del decreto da convertire in legge il suo collega di partito Agostino Santillo, in collaborazione con Adriano Paroli di Forza Italia. È qui che nasce l'indignazione del Pd e la spiegano con una nota ufficiale: «Quando ci sono provvedimenti importanti i relatori vanno sempre a finire ai Cinque Stelle». Si parla di atti ostili. È insomma una questione di rispetto tra i due partiti che alle prossime elezioni dovrebbero schierarsi dalla stessa parte. Ora tutta questa storia vista da troppo vicino può sembrare solo una faccenduola, una piccola discussione tra peones su a chi spetta passare per primo quando si incrociano per strada. Se però si allarga il campo si vede in quale guaio si è infilato il buon Letta. Il Pd ha difeso il Conte bis a oltranza. Sognavano insieme il tris. Lo vedevano perfino leader della coalizione: il grande unificatore. Cosa è rimasto di tutto questo? Un vuoto a perdere.

Coltorti, che un tempo Di Maio voleva ministro delle Infrastrutture, è un geomorfologo con cattedra all'università di Siena. La guerra lo ha portato ad allontanarsi dal ministro degli Esteri, perché la sua visione degli eventi non è la stessa del governo e di Draghi. In una recente intervista su Globalist sostiene: «Putin non è un macellaio e Zelensky ceda Donbass e Crimea. Il M5S ha seguito l'onda iniziale, io non avrei mai mandato armi. La nostra Costituzione lo vieta». Sull'Ucraina il professore ha le stesse posizioni di Conte. Ora ognuno può avere le sue opinioni ma resta il fatto che Cinque Stelle e Pd non sanno davvero su cosa e come incontrarsi. Non basta l'interesse elettorale per definire un'alleanza.

Tutto questo inoltre avviene sullo sfondo di una scissione profonda e rancorosa

all'interno di quello che un tempo era il movimento grillino. I Cinque Stelle non esistono di fatto più. Non ci crede più neppure Grillo. Ma allora con chi si vuole alleare il Pd? Con il rumore di fondo delle stelle cadenti.

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