Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia.
di Benito Mussolini
Un anno è passato, dodici mesi ricchi di eventi come dodici secoli ma noi cittadini italiani non sappiamo ancora come fu. Su la rotta oscura di Caporetto la Commissione di inchiesta non ha gettato alcun fascio né grande né piccolo di luce. Era da prevedersi. Le inchieste in Italia sono fatte perché c'è l'abitudine di farle. È un mezzo per mettere «in tacere» le cose specialmente ingrate. Le inchieste italiane non scoprono ma affogano le responsabilità.
Ebbene non ce ne importa. L'on. Orlando può sciogliere quella Commissione di valentuomini. Tanto non ci farà sapere più di quanto si sappia. Sistema tristissimo degno della vecchia Italia che non ha avuto ancora il coraggio di pubblicare i bollettini nemici e la lista delle nostre perdite. Non sembri un paradosso ma io affermo che ai fini della Nazione non si è «sfruttato» abbastanza Caporetto. Una sciagura può essere utile come un colpo insperato di fortuna. À quelque chose malheur est bon opinava il vecchio fabulista francese. Ma perché Caporetto desse tutti i frutti che poteva dare bisognava scolpirne le linee nel cuore e nella coscienza degli Italiani. Non frasi ma cifre. Non attenuazioni del disastro ma piuttosto amplificazioni. Non anonimia vaga delle responsabilità ma individuazione con nome cognome e al caso plotone d'esecuzione.
Chi di noi non ha sentito cadere e morire qualche cosa nel profondo del cuore durante la settimana che va dal 24 ottobre al 1º novembre? Diciamo oggi che non fummo sorpresi. Nelle retrovie e all'interno dominava l'ottimismo degli incoscienti nutriti di frasi. Ma chi era stato lassù, chi aveva vissuto lassù - soldato fra i soldati - immedesimato compenetrato in quel mondo - aveva notato da tempo le fenditure nella compagine. Era un lento processo di erosione. Qualche cosa si sfaldava. I soldati! Chi se ne ricordava più? Erano o sembravano assai lontani oltre un fiume che, sino alla vigilia della guerra, era perfettamente ignoto alla maggioranza degli Italiani. La Nazione invece di un contegno severo di guerra si esibiva ai ritornanti dalle trincee specie nelle città in una veste di urtante frivolezza. Curioso! Si pretendeva di conservare l'andamento della vita normale per una metà della Nazione mentre l'altra metà era condannata ad una anormalità terribile nella vita e nella morte. Stati d'animo di negazione si erano formati nelle masse profonde. Quando a precipitare la crisi giunsero gli episodi della nostra politica interna dell'agosto. Alle soglie dell'inverno dal Vaticano e dal Parlamento partirono voci di sfiducia, consigli di sedizione e di resa. Quelli che nelle due capitali di guerra e di pace - Udine e Roma - avrebbero dovuto avvertire i sintomi della crisi ignoravano o fingevano di ignorare. L'Italia era affidata a un vecchio che non aveva - ahimè! - la stoffa di Clemenceau.
La situazione verso la metà d'ottobre era questa: la Nazione era estranea all'Esercito; l'Esercito stava per rendersi estraneo alla Nazione. La disfatta di Caporetto è la disfatta della Nazione. La rivincita di Caporetto è la rivincita della Nazione.
Ed ecco da qualche tempo le voci che incitano all'oblio. Caporetto è un ricordo noioso e molesto. Tutti gli eserciti hanno avuto Caporetto. Dopo Caporetto c'è il Piave. Dimentichiamo. No. Non bisogna dimenticare. Bisogna vivere di questo ricordo. Come i romiti della Trappa che si ricordano vicendevolmente l'ineluttabilità della morte così gli Italiani dovrebbero nelle ore grigie del dubbio e anche in quelle della sorte lieta ricordarsi di Caporetto.
Non consoliamoci col pensiero di quanto può essere capitato ad altri eserciti. È una consolazione da femminette superficiali. I popoli forti sanno guardare in faccia al loro proprio destino. Roma repubblicana non nascose a se stessa quella grande Caporetto che fu la battaglia di Canne. La utilizzò per tendere sino al possibile l'arco delle energie. Il bruciore rovente di una percossa può stimolare - muscoli e nervi - alla rivincita.
C'è stata la nostra rivincita? Non ancora. Non siamo ancora tornati là dov'eravamo. Ed eravamo andati molto innanzi oltre il fiume sui monti verso Trieste, verso Trento. Dalle quote sabbiose del Carso si vedeva nei mattini chiari spazzati dalla bora Trieste biancheggiante fra monte e mare nel suo arco di case. Noi soldati finivamo per amare le nostre «quote». Dietro le «doline» brulicavano o stavano nell'immobilità trogloditica della trincea gli uomini mentre una vita tragica e primitiva uguagliava i giorni e le notti senza data e senza fine. Visioni indimenticabili! Ecco il Podgora spelato, il Sabotino lugubre, il San Michele bianco di ossa. Gorizia bella nella pianura verde e luminosa e i cimiteri continui lungo l'Isonzo. Poi il Sei Busi e il bastione pauroso di Seltz. L'altipiano di Doberdò. Il Vallone. Quota 144 col suo cimitero tormentato.
Io chiedo a coloro che ci sono stati e che evocando i nomi del deserto di pietra devono sentire la mia stessa emozione: «Non vi pare che la parte più intima di noi stessi sia rimasta oltre Isonzo?» Sì perché là sono rimasti i nostri. L'immagine di quei luoghi è così netta nel mio spirito che io saprei riconoscere le pietre ad una ad una. Dormono là i soldati dei reggimenti magnifici che puntavano su Trieste.
Due anni di battaglie, due anni di vittorie e di gloria! Quando pareva che si dovesse intraprendere l'ultima tappa ecco annullato in poche ore tutto ciò ch'era costato infinito sangue, infinito sacrificio.
Eravamo alle porte di Trieste gli austriaci giunsero alle porte di Venezia... Non sono passati. Non passeranno più. Ma sono ancora sul Piave. Caporetto è vendicato soltanto a metà. Bisogna compiere l'ultimo sforzo. Difendersi non basta. Non si può attendere la pace sul Piave. Chi può ci dia i mezzi per osare. Per attaccare. Per ripagare gli austriaci. Per restituir loro Caporetto ma in proporzioni ancora più rovinose. La parola d'ordine di questo primo anniversario eccola: restituire Caporetto al nemico!
Un anno fa Carlo e Guglielmo s'illusero di mettere fuori di combattimento l'Italia. Non ci riuscirono malgrado il colpo tremendo. L'Italia è in piedi ed ha il coraggio di ricordare, di notomizzare la sua disfatta mentre si accinge a saldare i conti con l'Austria-Ungheria.
Date in questo momento, date presto una Caporetto agli Absburgo. Noi ci siamo ripresi perché siamo un popolo che ha un passato ed avrà un avvenire; ma con una quarta Caporetto la vecchia monarchia senza popolo non si rialzerà più. Fiamme nere. Fiamme rosse a voi!
Cinque anni! Cinque anni di guerra mondiale!
Ma ecco la Pace come noi la volemmo: vittoriosa. Ecco la Pace come noi la vorremmo: giusta. Ecco la pace che reca in una mano l'olivo e nell'altra l'edera repubblicana.
La Germania che aveva dichiarato la guerra al genere umano è percossa a morte. È in ginocchio. La costruzione bismarckiana è tutta una rovina. Dov'è il Kaiser? Forse su una delle più deserte strade dell'Olanda. Dove sono gli altri re e principi del vivaio tedesco? Scomparsi. Fuggiti.
Non dall'interno ma dall'esterno è venuta e verrà la salute del popolo tedesco. Coi cannoni e con le baionette dei liberi popoli quello che si riteneva il popolo eletto si contenterà d'ora innanzi di essere uguale se non inferiore agli altri. Ecco oltre alle rivendicazioni nazionali l'obiettivo più alto della guerra.
Bisogna essere degni della pace come siamo stati degni della guerra e della vittoria. Bisogna pur nella gioia, pur nel grido irrefrenabile e umano della contentezza avere senso supremamente religioso di questa ora.
È l'ora in cui il destino batte col suo martello d'oro alle porte del silenzio e chiama i nostri caduti alla seconda vita della immortalità.
È l'ora in cui la Coscienza addita i più aspri doveri e segna le vette luminose verso le quali bisogna andare portando nel cuore l'odio necessario per nutrire il più grande amore.
È la pace!
In alto i cuori! Con dignità, con disciplina, con fede fermissima nei destini della Patria e del Mondo.
24 ottobre 1918
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