Che si arrivasse fino a questo punto è stato giusto: nella vicenda della strage di Erba, di fronte all'allargarsi della platea degli scettici e davanti alla enormità del dubbio che si poneva - l'idea di due poveri innocenti in carcere a vita per un delitto mai commesso - portare tutto al giudizio di nuovi giudici è servito a fugare l'idea di una giustizia arroccata sul partito preso, sulla tesi preconfezionata. Certo, ci sarebbe da chiedersi perché questa nuova chance, questo tempo supplementare, non venga concesso ad altri condannati che si protestano innocenti, da Bossetti alle donne di Avetrana. Ma qui ha pesato l'ostinazione della difesa, arrivata a scegliersi l'unico magistrato d'Italia disposto a sposare con convinzione la causa di Olindo e Rosa: Cuno Tarfusser, sostituto procuratore generale a Milano, che con la richiesta di revisione del processo di Erba ha chiuso la sua carriera di magistrato fuori dagli schemi.
Perché, nonostante le speranze della vigilia dei due ergastolani e dei loro legali, la Corte d'appello di Brescia sia rimasta convinta della colpevolezza di Olindo e Rosa lo si capisce già con chiarezza dalla formula del provvedimento emesso ieri: la richiesta di Tarfusser di revisione del caso, ovvero di celebrare un nuovo processo, è «inammissibile». Significa che i nuovi giudici non hanno trovato traccia del requisito che per la legge è indispensabile per rifare il processo: la presenza di elementi nuovi. La revisione non può essere un quarto grado di giudizio, non può consistere in una rilettura con occhi diversi della stessa realtà processuale passata già al vaglio di altri giudici. Servono prove emerse dopo la sentenza definitiva. E nel caso di Erba, dice ieri la Corte d'appello di Brescia, nulla è cambiato dal maggio 2011, quando la Cassazione respinse l'ultimo appello degli imputati, mettendo (si credeva) la parola fine al caso.
Quell'aggettivo, «inammissibile», significa che i legali di Olindo e Rosa non hanno saputo trasformare in elementi decisivi le incongruenze, le forzature che certamente nel corso delle indagini vi sono state, ma che tutte le sentenze precedenti avevano spiegato con una frenesia investigativa comprensibile davanti all'orrore della strage, alle immagini terribili del piccolo Youssef ammazzato senza pietà. Ma quella frenesia non ha inficiato il risultato finale. Né quando Mario Frigerio, l'unico sopravvissuto, si è convinto, dopo i primi dubbi, a riconoscere nel suo vicino Olindo il suo aggressore. Né quando Olindo e Rosa vengono convinti a confessare un delitto che ora negano di avere commesso, solo perché i carabinieri hanno promesso di far loro avere una cella doppia. I coniugi Romano saranno due sempliciotti, dice in sostanza la Corte d'appello di Brescia, ma non degli allocchi simili; soprattutto non potevano inventare dettagli inediti, rivelatisi terribilmente esatti.
Allo stesso modo la Corte bresciana ieri non trova nulla di davvero nuovo nella rilettura, sulla base di nuove conoscenze scientifiche, della traccia che per i primi giudici è la «prova regina», quasi più della loro confessione, a carico dei due imputati: la traccia di sangue di Valeria Cherubini, una delle vittime, trovata sull'auto di Olindo. Nel suo ricorso Tarfusser sostiene che il sangue può essere stato trascinato fin lì dalle scarpe di un investigatore, ma per la Corte allo stesso dubbio ha già risposto la sentenza d'appello, quando dice che «trattandosi di una traccia di alta qualità, si doveva escludere che potesse aver subito tanti passaggi e che fosse stata esposta a fattori degradanti». Già affrontate e giudicate irrilevanti anche le contestazioni sui verbali di accertamento, firmati da carabinieri diversi dagli autori reali, ma spiegabili «in ragione della concitazione del momento».
Nulla di nuovo:
questo è dunque il pensiero dei giudici che ieri chiudono, a questo punto davvero per sempre, il caso di Erba. Per la giustizia Olindo e Rosa sono colpevoli. E non c'è in libertà al loro posto un feroce assassino senza volto.
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