Da oggi in serie A stadi «semi-aperti» al pubblico. Sugli spalti spettatori contingentati (non più di mille), immobili, distanziati e con la mascherina. Vietati striscioni e bandiere. Lo ha deciso ieri il governo commissariando, di fatto, il ministro per (o contro?) lo Sport, Vincenzo Spadafora, da mesi (in)deciso a tutto. «Al fine di non fare disparità tra le squadre e come sperimentazione in vista delle prossime aperture, ho chiesto che questa decisione venisse estesa a tutto il territorio nazionale», ha scritto sulla pagina social un avvilitissimo Spadafora appena dopo aver capito di essere stato bypassato da Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali, costretto nel pomeriggio a convocare un summit per porre un argine al caos che stava facendo implodere il pianeta calcio.
Intanto sulle tribune del Palazzo continua a giocarsi una «partita» sempre più al ribasso, tra due politici (Spadafora Vincenzo, ministro prodotto del «manuale Cencelli», e Azzolina Lucia, ministra dell'Istruzione per grazia ricevuta) impegnatissimi in un «derby» fra chi è più inadeguato al rispettivo ruolo. La scuola sarebbe più importante di un Juventus-Inter ma la fallimentare ditta Spadafora&Azzolina a questi dettagli dà scarsa importanza.
Sta di fatto che oggi il disastro negli stadi è speculare a quello nelle aule. Se nelle classi mancano banchi e mascherine, nei campi di calcio latitavano (almeno fino ad oggi) regole e certezze. Ieri, in occasione del via alla serie A, palla a centro e caos totale sulle fasce. Con le Regioni in ordine sparso: alcune hanno aperto gli impianti a un numero contingentato di spettatori, altre lasciano i lucchetti ai cancelli. Tutto merito del decisionista Spadafora: decisionista nel senso che il lunedì decide una cosa, il martedì decide l'opposto, mentre il mercoledì decide risolutamente una soluzione di compromesso; ottenendo un risultato da Guinness dei primati: il maggiore numero di scontenti nel minor tempo possibile.
Dinanzi a tanta confusione il governo è stato costretto a varare un «provvedimento comune» appiattito sulla «fuga in avanti» di quelle Regioni che per uscire dall'impasse spadaforiana hanno puntato sulla propria autonomistica-sportiva. Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali, ha convocato una riunione in videoconferenza per «discutere sul tema» con l'imperturbabile Vincenzo Spadafora, il preoccupatissimo ministro della Salute, Roberto Speranza, e Stefano Bonaccini, in versione double face: governatore dell'Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni. Risultato: Spadafora «commissariato» col governo che detta le regole, mutuandole dalle ordinanze regionali (Lombardia, Veneto, Emila Romagna e Piemonte) che hanno fatto da apripista: accesso agli impianti in misura non superiore ai 1.000 spettatori in quelli all'aperto e a 700 spettatori in quelli al chiuso.
Rigorose (sulla carta) le norme: gli spettatori dovranno occupare per tutta la durata dell'evento esclusivamente i posti a sedere specificamente assegnati, con divieto di collocazione in piedi e di spostamento di posto, assicurando tra ogni spettatore seduto una distanza «laterale e longitudinale di almeno un metro». Obbligatorio indossare le mascherine. Vietati striscioni e bandiere. Così la mini-riapertura degli stadi è servita.
Il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri gongola: «Anche a me faceva male vedere gli stadi vuoti. Se le cose andranno avanti così, è vero che avremo un aumento dei casi ma al momento è tutto sotto controllo. Non vedo perché non si sarebbero dovuti aprire gli stadi, con un numero molto ridotto di persone e con regole definite».
Intanto il presidente della Lega di Serie A, Paolo Dal Pino, dopo essere andato giù duro («Lo dico a voce alta: il calcio
merita rispetto, bisogna pianificare le cose dialogando»), si è parzialmente rasserenato. Pur non rinfoderando del tutto l'ascia di guerra. Per ora tutti negli spogliatoi. A bere un thé caldo. Nonostante l'atmosfera bollente.
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