La galassia delle Cinque Stelle contempla un nuovo mistero, sul quale gli scienziati (della comunicazione e non solo) stanno cominciando a interrogarsi. Il governo giallo-verde infatti sarà ricordato non per aver imposto la censura all'opposizione, quanto per la curiosa tendenza a imbavagliarsi da solo. Lo dimostra plasticamente la scena emblematica dell'altro giorno, quando durante l'audizione sul Def, il presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi ha pensato bene di porre fine ad un tentativo di chiarimento del ministro Giovanni Tria con un gesto drastico. Cioè spegnendogli il microfono nel bel mezzo del discorso, con l'effetto di lasciare il titolare dell'Economia a muovere le labbra senza emettere alcun suono udibile dagli astanti. Risultato: Tria ridotto a triglia in un acquario. Non sono giornate tranquille per il guardiano dei conti. E il fiato sul collo di Bruxelles è quasi l'ultimo dei pensieri. «Chi ha troppe parole non può essere che un uomo solo», ha scritto Elias Canetti, e nell'era il cui il consenso si forma sui social a Tria piace questo elemento. Perciò il ministro deve soffrire di una solitudine tremenda, visto che non gli fanno finire un ragionamento in pace. Anche ieri, nemmeno il tempo di sciorinare i numeri della manovra, è arrivato Matteo Salvini a contraddirlo sulla cifra da destinare alla flat tax salvo poi ricucire con una «nota congiunta». Come se quello che uno non può dire da solo possa essere spiegato per iscritto a quattro mani, o meglio a due voci.
Scripta manent, verba volant. Soprattutto in politica. Sarà anche per questo che l'esecutivo targato M5s-Lega ha qualche problemino coi portavoce. I quali, anziché fungere da facilitatori del rapporto con i media, avranno preso alla lettera certi manuali che attribuiscono loro il ruolo di «interruttori» della comunicazione. Così interrompono di continuo. E magari si limitassero a questo. Sempre Tria la settimana scorsa è stato portato via di peso dall'assistente di Salvini, Iva Garibaldi, per sottrarlo al plotone di esecuzione dei giornalisti che lo bersagliavano di domande sul Pil. La stessa sorte era capitata al premier Giuseppe Conte all'esordio internazionale al G7 in Canada. Fu il portavoce Rocco Casalino a tirarlo per un braccio e ad allontanarlo da quegli impiccioni dei cronisti. E lo stesso Di Maio, alla «prima» del professore alla Camera, era stato perentorio: «Posso dire che...?». «No!». Stop, primo ministro silenziato.
Dall'amministrare con la mano sul cuore al governare con la mano sulla bocca il passo è breve. È il contrappasso per chi preferisce comunicare con i «vocali» di WhatsApp (salvo poi pentirsene quando è troppo tardi...). Chissà se il governo del cambiamento ci farà vedere una grande riforma: le conferenze stampa in playback stile Festivalbar, con le casse che mandano in onda un messaggio preconfezionato dai guru portavoce, anzi taglia-voce. Fenomenologia dell'universo grillino. Eppure, a pensarci bene, talvolta un controllo preventivo sulle castronerie potrebbe risultare utile. Di Maio e Casaleggio starebbero pensando a una sorta di tutor al ministero delle Infrastrutture.
Ma non si tratta di un nuovo strumento per migliorare la sicurezza in autostrada. Piuttosto servirebbe a evitare altri tipi di incidenti, quelli diplomatici causati da Danilo Toninelli, la cui voce invece arriva forte e chiara. Forse troppo. E risuona in fondo al «tunnel» delle sue memorabili gaffe.
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