Mario Draghi, non poteva essere altrimenti, si guarda bene dal commentare l'esito della tornata amministrativa. Ma - pur tacendo - sceglie di mandare un messaggio politicamente inequivocabile. A metà pomeriggio, infatti, il premier decide di anticipare a oggi il Consiglio dei ministri sulla delega fiscale, inizialmente in programma per giovedì. L'ex numero uno della Bce vuole lanciare un segnale chiaro a tutti i partiti che sostengono la sua maggioranza, a cominciare da quelli più riottosi. In particolare Lega e M5s, le ali sovraniste uscite con le ossa rotte dalla tornata amministrative. Da ora in poi - è infatti il senso dei ragionamenti che si fanno a Palazzo Chigi - basta con il tergiversare e con le mediazioni inutili. Perché le urne hanno premiato il blocco istituzionale che sostiene senza esitazione il governo, mentre hanno punito chi in questi otto mesi di esecutivo ha sempre giocato a fare l'opposizione interna: Matteo Salvini primo fra tutti, ma anche un corposo pezzo di M5s.
Uno schema che il risultato delle amministrative ha sostanzialmente archiviato. Tanto che Draghi, pur non dicendo una parola, sceglie volutamente di accelerare sull'agenda di governo. La delega fiscale si farà oggi, quando in sole tre ore (tra le 14 e le 17) sono in programma cabina di regia, Consiglio dei ministri e, forse, anche una conferenza stampa per illustrare il provvedimento. Un timing serrato che non permette deroghe, visto che prima di sera il premier deve partire per la Slovenia dove è atteso per il Consiglio Ue informale. E sul fronte riforme è proprio questo il passo che vuole imporre l'ex banchiere centrale su tutti i dossier aperti: a breve toccherà al ddl concorrenza, alle nuove norme sugli infortuni sul lavoro, alla revisione del reddito di cittadinanza e, naturalmente, alla legge di Bilancio. Un Draghi, dunque, che sembra voler abbracciare i nuovi equilibri politici e che forse non esclude di farsi in qualche modo portatore della brusca frenata del sovranismo. Soprattutto quello di governo di Lega e M5s, anche se pure FdI - considerando che è l'unico partito d'opposizione - forse ha raccolto meno di quanto si aspettava. D'altra parte, il fatto che l'elettorato abbia premiato la linea europeista di questi otto mesi di governo Draghi non è un dettaglio, al netto della vittoria di Joe Biden che, ormai quasi un anno, fa ha contribuito a un cambio di paradigma.
La prima, immediata conseguenza, dunque, sarà la brusca accelerazione all'agenda imposta da Draghi. Che ci tiene a mandare il messaggio di un governo al lavoro, concentrato solo sul chiudere i dossier ancora sul tavolo. Poi, certo, c'è la politica. E soprattutto la partita del Quirinale che è ormai alle porte, visto che dopo la Befana il presidente della Camera convocherà il Parlamento in seduta comune e che, con ogni probabilità, già nella terza settimana di gennaio si arriverà a eleggere il nuovo capo dello Stato. Poco più di tre mesi, insomma. Politicamente, un battere di ciglia. Tanto che ieri sulle prime qualcuno a Palazzo Chigi ha temuto che il crollo della Lega e la sconfitta di Salvini potessero far scricchiolare l'unità del centrodestra e, quindi, compromettere le chanches quirinalizie di Draghi. Che sì, pubblicamente si schernisce, ma che - ovviamente - è assolutamente disponibile. Poi ci ha pensato Giorgia Meloni a sparigliare, lanciando il guanto della sfida a Enrico Letta. «FdI è disponibile a votare Draghi alla presidenza della Repubblica a patto che si vada subito a votare», ha fatto sapere. Il segretario del Pd ha schivato il colpo, replicando che FdI «vuole solo far cadere il governo».
Ma se l'unico partito che non sostiene l'esecutivo Draghi dovesse insistere sulla candidatura dell'ex Bce al Colle, sarebbe davvero difficile per la maggioranza sfilarsi. Soprattutto, sfilarsi senza che il diretto interessato non se ne abbia a male.
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