"Il grande giorno" di Gerusalemme Ma a Gaza è rivolta: strage di palestinesi

Esplode la rabbia per l'apertura dell'ambasciata americana: oltre 50 morti e più di 2.700 feriti

"Il grande giorno" di Gerusalemme Ma a Gaza è rivolta: strage di palestinesi

Gerusalemme Fare storia: il popolo ebraico è specializzato in questo soggetto specialmente quando si tratta di Gerusalemme. David, Salomone, i babilonesi, gli antichi romani, i greci, e poi di nuovo gli ebrei. La lotta è stata dura per il popolo ebraico. Ma ieri è stato un altro grande giorno per l'antichissimo popolo di Israele e la sua capitale dove tutto è successo. E, nonostante il palcoscenico fosse girevole e l'attenzione collettiva si spostasse spesso sul confine con Gaza dove ci sono stati 55 morti e più di 2.700 feriti (il vicino Egitto ha aperto i suoi ospedali per curarli e gli Emirati hanno sbloccato 5 milioni di dollari), ieri il quartiere modesto e lievemente remoto di Talpiot ha fatto storia. Qui si trova l'ex consolato degli Stati Uniti, da ieri Ambasciata Americana a Gerusalemme. A dicembre Trump l'ha stabilito, solo cinque mesi dopo l'ha realizzato, come ha detto il suo genero Jared Kushner, con puntualità e coraggio inedito.

Ivanka Trump ha scoperto la nuova insegna blu con lo stemma e il nome del presidente Trump inciso per i posteri nella pietra di Gerusalemme. Con lei il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, un vero alter ego del presidente. Per Israele è stato un momento fondamentale, una specie di nozze d'oro nutrite di reciproco entusiasmo con il Paese il cui presidente Truman riconobbe lo Stato d'Israele 70 anni fa, 11 minuti dopo che Ben Gurion l'ebbe proclamato. «E poi si pentì di averci messo troppo» come ha detto emozionato aprendo la cerimonia David Friedman, l'ambasciatore americano. Netanyahu ha riconosciuto l'impegno di Friedman stesso nel realizzare quello che per lui, ha detto, era un sogno da vent'anni: essere il primo ambasciatore degli Usa a Gerusalemme.

È stata una parata di gioia di fronte a 800 ospiti seduti in un teatro costruito per l'occasione, 250 membri della delegazione americana, personaggi di primaria importanza come Jared Kushner, consigliere di Trump e marito di Ivanka; c'era anche il vice segretario di Stato John Sullivan, l'incaricato per il Medio Oriente Jason Greenblatt, molti membri del Senato e del Congresso, parecchi democratici fra cui Joseph Lieberman, e naturalmente da parte israeliana oltre a Netanyahu anche il presidente della Repubblica Reuven Rivlin, membri della Knesset, del governo, dell'opposizione, del rabbinato e anche del mondo cristiano che è stato un grande alleato del passaggio nella Città Santa.

Il punto di Netanyahu e degli altri israeliani è stata la storicità del momento, il riconoscimento di una verità indiscutibile, negata pretestuosamente o ignorata per motivi opportunistici (cosa che anche ieri parte dell'Ue ha seguitato a fare) e invece scolpita per sempre nella storia ebraica: Bibi ha ricordato quando sulla stessa altura dove sorge il consolato, ora ambasciata, correva a tre anni col fratello di sei anni Yoni, ed era proibito allontanarsi per paura degli agguati o dei rapimenti. Ecco, ha detto, invece adesso è qui l'Ambasciata del Paese più amico del mondo, e ha ringraziato Trump. Il suo discorso di due minuti ha indicato il significato che il presidente vuole dare alla sua mossa: da una parte un segnale di amicizia immortale, di realizzazione dovuta di una promessa; dall'altra l'apertura di una fase in cui si renda possibile una pace coi palestinesi basata sulla realtà, e sui vantaggi di cui i palestinesi potrebbero godere. Kushner è tornato su questo punto, parlando di valori condivisi, specie quello della libertà; presto è probabile che gli Usa presentino il piano di cui si parla da tempo e di cui Abu Mazen al momento non vuol sentir parlare.

Nel frattempo, a Gaza la situazione ha raggiunto il calore bianco: Hamas ha mobilitato non i centomila che aveva annunciato, ma circa 50mila persone, anche donne e bambini, spingendoli al confine con Israele. L'intenzione fin dall'inizio è stata quella di provocare scontri definiti dall'esercito «molto violenti» per penetrare oltre il filo spinato, cosa che sarebbe ovviamente foriera di attentati e violenze sul terreno israeliano, nelle case, per le strade, nei kibbutz.

I drappelli d'attacco erano formati almeno per il 50 per cento, secondo l'esercito, da membri di Hamas, e si sono avvicinati con cesoie, armi, bombe molotov mentre venivano bruciati copertoni per coprire i gruppi col fumo. L'esercito li ha fermati, e purtroppo i morti che Hamas cercava per contrastare l'effetto internazionale del riconoscimento di Gerusalemme toccano un numero molto elevato.

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