Ha vinto il Sì e ora la forbice della riforma, con il placet del voto referendario, si abbatterà sui Palazzi dopo le prossime elezioni. Deputati e senatori verranno «ridotti» del 36,5 per cento: a Montecitorio le poltrone scendono da 630 a 400 (392 e non più 618 gli onorevoli eletti in Italia, otto e non più 12 gli eletti all'estero) mentre a Palazzo Madama gli scranni passano da 315 a 200 (196 senatori «italiani», quattro e non più sei quelli eletti all'estero), e i senatori a vita in Aula dovranno essere cinque al massimo.
Non si risparmierà molto: gli onorevoli stipendi tagliati, al netto delle tasse, ammontano a circa 64 milioni di euro (37 per la Camera, 27 per il Senato), ai quali vanno aggiunte le minori spese di logistica e amministrazione, stimati in altri 20-30 milioni di euro. A fine anno, il risparmio per i cittadini sarebbe di circa 1,5 euro a testa.
Quello che con la riforma cambia, e tanto, è invece la rappresentanza territoriale. Se per la Camera i riflessi sulla rappresentanza regionale sono abbastanza omogenei, non si può dire lo stesso per il Senato, che è eletto su base regionale. Quel 36,5 per cento di inquilini di palazzo Madama in meno infatti non arriverà in maniera lineare su tutte le Regioni. Se non cambia nulla rispetto a prima solo per Valle D'Aosta e Molise, la percentuale del taglio del 36,5 per cento viene più o meno rispettato solo in Piemonte (da 22 a 14 senatori, -36.4%), Lombardia (da 49 a 31, -36.7%), Veneto (da 24 a 16, -33.3%), Liguria (da 8 a 5, -37.5%), Emilia Romagna (da 22 a 14, -36.4%), Toscana (da 18 a 12, -33.3%), Marche (da 8 a 5, -37.5%), Lazio (da 28 a 18, -35.7%), Campania (da 29 a 18, -37.9%), Puglia (da 20 a 13, -35%), Sicilia (da 25 a 16, -36%) e Sardegna (da 8 a 5, -37.5%).
Va bene al Trentino-Alto Adige, che passa da 7 a 6 seggi (con le province autonome che vengono contate come Regione, con 3 seggi a testa) e aumenta il proprio peso specifico a Palazzo Madama. Va peggio invece alla Calabria, che vede ridurre i propri seggi del 40% (da 10 a 6), all'Abruzzo e al Friuli (da 7 a 4, -42,9 per cento), e soprattutto alla Basilicata e all'Umbria che scendono da 7 a 3 seggi, e con un taglio del 57.1%, esprimeranno meno della metà degli eletti attuali.
L'effetto sulla rappresentanza, come si diceva, è a macchia di leopardo. Se prima della riforma c'era un senatore ogni 188mila italiani, il rapporto ora scende a 1/302mila. Ma la media non è rispettata sui territori, visto che in Sardegna e in Abruzzo ci vorranno 327mila abitanti per esprimere un senatore, mentre in Trentino o in Basilicata ogni eletto rappresenta rispettivamente 171mila e 192mila cittadini. Visto l'esito del referendum, il dibattito sul danno provocato dalla riforma alla rappresentanza, uno dei cavalli di battaglia del No, sembra non aver appassionato gli elettori.
L'altro grande punto interrogativo è il futuro funzionamento dei Palazzi. Perché tra commissioni (14 solo le permanenti per ogni ramo del Parlamento), giunte, presidenze, vicepresidenze, segreterie e comitati, gli incarichi per i parlamentari sono molti di più degli eletti già prima del taglio, e il referendum non tocca questi organismi: solo al Senato parliamo di 740 poltrone da occupare.
Oggi qualcuno ricopre una sola carica, altri sono veri stakanovisti, come l'azzurro Lucio Malan che ne ha ben sei. Ora, a meno di modifiche e accorpamenti, sarà necessario ritoccare i regolamenti e probabilmente redistribuire gli incarichi, per evitare che il funzionamento degli organi delle camere possa incepparsi.
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