Anni fa intervistai la poetessa Biancamaria Frabotta. Parlavamo di patria, identità, appartenenza, guerra, pace, speranza. Parlavamo sostanzialmente di Europa e riflettevamo su quanto fosse difficoltoso e illusorio il concetto di «confine», tanto più di «bandiera»: un pezzo di stoffa assolutamente non scontato e sempre frutto di conflitti tremendi, in nome del quale in passato tanta gente ha patito e per cui è stato versato parecchio sangue, e che oggi viene sventolato a volte come se nulla fosse, altre volte con consapevolezza, all'interno di una gamma più che mai eterogena di manifestazioni. L'Eurovision Song Contest è una di queste: una grande scatola musicale dove una dopo l'altra si susseguono le esibizioni canore, una per ogni paese europeo, una per ogni popolo appartenente all'UE che viene lì rappresentato da una delegazione, un gruppo più o meno nutrite di facce che sventolano, immancabilmente, la bandiera dell'Italia piuttosto che della Spagna o della Germania. Atti di puntuale patriottismo, insomma, che tuttavia s'incrociano con policy che hanno il gusto dell'obbligo, talvolta aggirato: come nel caso dello svedese Eric Saade, che ha bypassato il divieto di esibire bandiere palestinesi presentandosi sul palco con una kefiah, sciarpa simbolo delle proteste antisraeliane. Come dire: mi fai uscire dalla porta ma io rientro dalla finestra, mi chiedi di non portare il sangue in scena tramite una bandiera ma io quella bandiera, che parla di sangue e che urla disperazione, ce la porto lo stesso.
Non solo, il gesto del cantante evidenza quanto sia sempre più utopico in contesti simili mantenersi neutrali, mantenersi imparziali prima ancora che apolitici, mantenere alta una bandiera pensando che non sia solo una bandiera, ma molto molto di più.
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