Un tempo Vladislav Surkov, l'eminenza grigia del Cremlino ormai in disgrazia, evocava la «democrazia gestita». Oggi Yevgeny Prigozhin evoca la Corea del Nord come unico modello capace di risparmiare al sistema di potere putiniano una rovinosa sconfitta e una rivoluzione capace di dissolverlo. Dal brutale affresco del capo della Wagner emergono le contraddizioni del fallimento dell'Operazione speciale. Un'operazione destinata nei piani a garantire la presa di Kiev non grazie all'esercito russo, ma alla collaborazione di generali e politici ucraini disposti a riportare il Paese nell'area d'influenza russa. Proprio il fallimento dell'Operazione speciale e la sua trasformazione in «guerra totale» finisce con l'evidenziare, secondo Prigozhin, le contraddizioni di una «democrazia gestita» che per anni è stata garanzia di consenso e potere. Il capo della Wagner, approfittando dell'impunità conferitagli dalla vittoria di Bakhmut, non si limita più a scagliarsi contro i vertici della Difesa, ma arriva a chiedere a Vladimir Putin una drastica rottura con il passato e la propria classe dirigente. Non è più possibile - ammonisce - che i figli delle élites continuino a «tenere le chiappe al sole» mentre i figli delle famiglie normali «tornano nelle bare di zinco». Lazzi e sarcasmi macabri da cui emerge però l'insofferenza verso gli agi degli oligarchi garantiti, nonostante la guerra, da una corruzione pervasiva e generalizzata, che dilapida le risorse della difesa e trasforma le forze armate in una scatola vuota, trasferendone obblighi e competenze ai mercenari della Wagner.
Il cinismo dell'uomo pronto a definirsi «macellaio di Putin» fa emergere verità fin qui proibite. Una riguarda il ruolo della Wagner e delle compagnie militari private nate quando, ai tempi della Cecenia, il Cremlino incominciò a sostituire l'inefficiente macchina militare sovietica con le forze speciali e le milizie locali messe a disposizione dal padre di Kadyrov. Quell'esperimento, perfezionato sul modello dei contractor statunitensi, arrivò a compimento in Siria, dove l'esercito russo si limitò a coprire le operazioni della Wagner. Una Wagner funzionale a quel modello di «democrazia gestita» in cui agli oligarchi è concesso di arricchirsi pur di non interferire con il potere e ai generali di trasferire sui ben pagati volontari della Wagner l'onere di combattimento e morte. Modelli mandati all'aria dal conflitto ucraino, in cui - come Prigozhin fa intendere menzionando i 20mila caduti solo a Bakhmut e solo dalla Wagner - l'entità delle perdite minaccia di dar vita a una dilagante opposizione. Un incubo condiviso con quel «partito della guerra» che conta non solo su generali come Mizintsev e Surovikin o oligarchi nazionalisti come Malofeev, ma anche sui vertici di una chiesa ortodossa pronta a benedire la guerra coniugando fede e nazionalismo russo.
Forte di questi sostegni, Prigozhin pretende non solo un'epurazione della classe di potere putiniana, ma anche l'instaurazione di un modello spartachista dove la legge marziale cancelli illusioni e ipocrisie della «democrazia gestita» e l'economia si concentri sulle necessità dello sforzo bellico. Resta da capire come la vedano, oltre a Putin, anche quei servizi segreti rimasti l'invisibile, ma insostituibile, pilastro di ogni sistema post-sovietico.
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