Più che un ex premier di due governi di colore opposto, Giuseppe Conte (nel tondo) è diventato un sindacalista barricadero. I lavoratori al di sopra di tutto. E quindi la battaglia sul salario minimo a nove euro l'ora, il corpo contro il governo sul decreto Lavoro, ribattezzato «Decreto precarietà» dal leader dei Cinque Stelle. Ancora, la rissa sul reddito di cittadinanza, misura bandiera del grillismo cancellata dal governo di centrodestra. Poi la strumentalizzazione delle proteste francesi e la chiamata alla piazza contro un esecutivo che, secondo Conte, «sta programmando un incendio sociale». Infine lo show in Senato con gli ex dipendenti della Ki Group, l'azienda della ministra Daniela Santanché al centro delle polemiche dopo l'inchiesta di Report.
L'immagine dell'avvocato Robin Hood, del beniamino dei poveri e degli emarginati, stride con i tagli di cui sono state vittime molti dipendenti dei gruppi del M5s tra Camera e Senato. Sono almeno una ventina i collaboratori lasciati a casa da Conte con l'inizio della nuova legislatura. Sulla spending review in salsa pentastellata ha influito sicuramente la combinazione tra il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento. Eppure l'ex premier ha trovato i soldi per assumere alcuni big di lusso non ricandidati in Parlamento in virtù della regola dei due mandati, come l'ex vicepresidente del Senato Paola Taverna e l'ex viceministro dell'Interno Vito Crimi. Entrambi a libro paga dei gruppi parlamentari per la cifra di 70mila euro all'anno. Ed è proprio questo uno dei punti più contestati dagli ex dipendenti lasciati a casa. «Hanno fatto delle scelte politiche, non mi hanno rinnovato il contratto dicendo che non c'erano abbastanza soldi, ma la verità è che il budget si è ridotto anche perché hanno deciso di prendere ex parlamentari a cui hanno dato uno stipendio più alto», si sfoga con Il Giornale un ex collaboratore del M5s, depennato da Conte all'inizio della legislatura. Una mannaia che è calata anche su alcuni membri storici dell'universo dei Cinque Stelle. Uno su tutti è Nicola Virzì, detto Nik il Nero, per dieci anni videomaker ufficiale del M5s. Virzì, attivista della prima ora, assunto ai tempi di Gianroberto Casaleggio, ora è tornato al suo vecchio lavoro di camionista. È saltato pure Andrea Cottone, giornalista, già capo della comunicazione del M5s alla Camera e portavoce di Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia. E con loro non sono stati riconfermati altri dipendenti, tra cui tecnici che avevano avuto esperienze nei gruppi parlamentari del Pd. «Sono dispiaciuto, ci sono rimasto male, ma evidentemente hanno scelto in base alla fedeltà politica a Conte, loro mi hanno detto che per me non c'erano fondi a sufficienza», spiega al Giornale un altro ex lavoratore del M5s, protetto dalla garanzia dell'anonimato.
Tra i corridoi dei Palazzi, poi, si sussurra anche di problemi tra molti parlamentari grillini e i loro attuali collaboratori. Spesso sfruttati e malpagati. Le malelingue raccontano che Carla Ruocco, ex deputata grillina, abbia divorato una serie di «portaborse». E non si placano i malumori per la consulenza di Beppe Grillo a 300mila euro all'anno. Altro che uno vale uno. Problemi che ci sono da molti anni. Fece scalpore il caso di Lorenzo Andraghetti, collaboratore dell'ex deputato Paolo Bernini.
Il parlamentare nel 2017 è stato condannato a risarcire il suo staffista, licenziato in tronco dopo essere stato espulso dal M5s. E ora Conte ha deciso di privilegiare gli ex parlamentari, a scapito dei semplici dipendenti.
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