L'attuale normativa assicura una sostanziale parità giuridica sia nell'accesso al mondo del lavoro sia nel suo svolgimento, volta alla progressiva eliminazione delle discriminazioni fondate sul genere e all'applicazione di sempre maggiori tutele. In Italia, una specifica tutela alle lavoratrici oggetto di discriminazioni è contenuta nel «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna». La norma contiene diversi limitazioni a carico del datore di lavoro che precludono la possibilità di dar luogo a disparità in fase di assunzione, nelle condizioni di lavoro, nella determinazione della retribuzione, nella progressione di carriera, nonché nell'accesso alle prestazioni previdenziali.
Quanto alla parità retributiva, l'art. 28 del Codice delle pari opportunità richiama quasi letteralmente il disposto dell'art. 4 della direttiva 2006/54/CE secondo cui «per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso».
A fronte di tali diritti previsti dal nostro ordinamento e da quello europeo, cosa deve fare la lavoratrice (o il lavoratore) discriminato? Quali sono gli elementi da provare in giudizio?
La Corte di Cassazione ha chiarito su chi grava il cosiddetto «onere della prova». Prendiamo ad esempio un caso recentemente deciso dalla Corte di Cassazione: una società conferma sette lavoratori, originariamente assunti con contratti di apprendistato, cinque sono uomini e solo due donne, tutte senza figli. Nessuna lavoratrice madre confermata. I Giudici devono accertare se si tratta di una mera casualità o di una strategia del datore di lavoro. È la lavoratrice madre a dover provare di essere stata discriminata o è il datore di lavoro a dover dimostrare di aver agito correttamente? Nel caso di specie la legge prevede «un'attenuazione dell'onere della prova».
Secondo la Cassazione «se è vero che il datore di lavoro deve fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione», è però altresì vero che tale onere sorge solamente se il ricorrente (ossia la lavoratrice) abbia fornito al giudice elementi fattuali «desunti anche da dati di carattere statistico» - relativi ai comportamenti denunciati come discriminatori, «purché siano idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso o della maternità».
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