Della Prima guerra mondiale ci rimangono i monumenti ai caduti eretti in ogni città e paese d'Italia, ma non in tutti rimane il ricordo scolastico per cui quella «quarta guerra d'indipendenza» completò l'Unità con Trento e Trieste. Fu una carneficina. Seicentomila morti, tanti più feriti e mutilati, su una popolazione che nel 1915 era di 38 milioni. Per i fanti, un'orribile vita nelle trincee, in attesa di un ordine d'attacco che comportava buttarsi con fucile e baionetta contro le trincee nemiche, falcidiati dai cannoni e dalle mitragliatrici. Molti, per analfabetismo, non sapevano neanche dove fossero Trento e Trieste.
Il risentimento popolare avrebbe poi adottato la definizione di «carne da macello» per i soldati buttati allo sbaraglio in un'avanzata a volte inutile, e che a loro lo sembrava sempre. Alcuni non ce la facevano, paralizzati dal terrore, più che dalla viltà: non uscivano dalla trincea, o si fermavano in mezzo agli spari, o tornavano indietro. A volte alcuni reparti di carabinieri, sulla cui disciplina si poteva contare, ricevano l'ordine di sparare a chi si fermava o arretrava. Per altri c'era un giudizio sommario e immeritato: fucilazione, da parte degli stessi commilitoni. Ufficialmente furono oltre 700 i ragazzi o i giovani uomini che subirono questa sorte, e non c'era pietà per loro, neppure postuma. Oggi abbiamo il dovere di manifestarla, quella pietà, attraverso un atto di giustizia. La paura è un umanissimo istinto di conservazione, e anche se in guerra non se ne ha diritto, sarebbe un'infamia continuare a bollare come traditori e vili chi per un attimo perse la virtù del coraggio e per questo perse anche la vita. Lo si può - e lo si deve - capire bene proprio quando, per paura di un virus, siamo disposti all'autoreclusione, a subire coprifuoco e limitazioni di ogni tipo.
Benvenuta dunque la decisione della Commissione Difesa del Senato, che ha approvato all'unanimità (dopo vent'anni di discussioni in Parlamento...) la «Riabilitazione storica dei militari fucilati durante la Prima guerra mondiale». Anche il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé sottolinea che non si tratta di un atto di revisionismo storiografico, bensì di un atto di giustizia: quei soldati, sottoposti a un processo sommario e senza le garanzie di uno Stato di diritto, «finalmente potranno riposare in pace» e la loro memoria, alla vigilia del centesimo anniversario della traslazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria, in novembre verrà onorata con una lapide. Mi auguro che ci sia anche il presidente della Repubblica.
Qualcosa di simile è già stato fatto da anni, con atti simbolici e solenni, in Paesi - Francia, Gran Bretagna, Germania - che hanno una tradizione bellica più severa della nostra. Noi ci abbiamo aggiunto una bella iniziativa: viene garantita la piena fruibilità degli archivi delle Forze Armate e dell'Arma dei Carabinieri sui documenti riguardanti la disciplina militare, e vengono incoraggiati gli storici a sviluppare ricerche sui militari condannati alla pena capitale.
Qualcuno potrà dire (di certo qualcuno lo dirà) che il
Parlamento perde tempo a occuparsi di simili quisquilie in tempi di pandemia. Non è così, è un atto di coraggio civile e di serietà proseguire la normale attività alla ricerca di giustizia per chi non ha mai potuto difendersi.
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