Un groviglio complesso da dipanare. Che tiene insieme le tensioni di questi mesi tra governo e magistratura e il confronto in corso da settimane sulla riforma del premierato. Sul primo fronte, al Csm ieri è stata la giornata del cessate il fuoco. Sul secondo, invece, si è abbattuta come un meteorite in arrivo da Alfa Centauri la sonora bocciatura di Gianni Letta. Non un dettaglio, perché lo storico sottosegretario alla presidenza del Consiglio di tutti e quattro i governi guidati da Silvio Berlusconi non è solo uno dei principali animatori dell'epopea politica berlusconiana e, quindi, del centrodestra come lo conosciamo oggi. Ma è anche figura chiave della recente storia repubblicana, crocevia geometricamente perfetto tra politica, amministrazione e poteri dello Stato. Peraltro, con una loquacità da sempre inversamente proporzionale alla sua influenza. Eppure, ieri Letta ha parlato. Per dire, con il solito garbo, che il premierato proprio non lo convince, che la riforma ridurrebbe i poteri del capo dello Stato e che, a suo avviso, le attuali prerogative del Colle non andrebbero toccate («la figura del presidente della Repubblica sta bene così com'è disegnata», «non l'attenuerei» come accadrebbe «fatalmente» con il premierato). Una presa di posizione netta, che fa fibrillare il centrodestra. Ma non tanto per l'inevitabile collegamento tra Letta e Forza Italia, tanto che Antonio Tajani si affretta a dire che il suo partito «sostiene convintamente il premierato» e che l'ex sottosegretario «si riferiva a valutazione teoriche». Quanto perché è a tutti chiaro che Letta - uomo che con il Quirinale ha sempre avuto un canale diretto e privilegiato a prescindere da chi fosse il presidente in carica - non parla a caso. E sceglie di farlo quando l'iter del ddl Casellati ha appena iniziato il suo iter parlamentare con le audizioni in corso anche ieri in Senato. Peraltro, Letta percorre una strada diametralmente opposta a quella di Giorgia Meloni che, a inizio novembre, aveva presentato in conferenza stampa «la madre di tutte le riforme» assicurando che «non tocca le competenze del capo dello Stato, salvo l'incarico al presidente del Consiglio».
Sul punto, come è noto, Sergio Mattarella ha scelto la via del silenzio, perché - è il refrain che arriva dal Colle - non ha intenzione di intervenire nel merito di una riforma che incide proprio sui poteri del presidente della Repubblica. Allo stesso modo, ma per altre ragioni, ha preferito non dire nulla ieri, quando ha presieduto il plenum del Csm convocato per la presentazione delle linee programmatiche del ministro della Giustizia. Ha parlato Carlo Nordio, usando toni decisamente più dialoganti degli ultimi giorni. Insomma, un clima ben diverso da quello dell'uno-due messo a segno prima dal ministro della Difesa Guido Crosetto (che la scorsa settimana ha evocato «l'opposizione giudiziaria») e poi dal sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano (che lunedì in pre-consiglio dei ministri ha provato a far passare i test attitudinali per accedere alla magistratura). Due accelerazioni - la prima politica e la seconda legislativa - che al Colle hanno appreso dai giornali. Non una novità, visto che - racconta un esponente di governo di lungo corso - sarebbero alcuni mesi che i canali di comunicazione tra Palazzo Chigi e il Quirinale funzionano un po' a singhiozzo (vedi il caso del protocollo con l'Albania).
I toni distesi di ieri, insomma, sono un passo in avanti. Perché Nordio ribadisce l'intenzione di riformare la giustizia, ma sottolinea quanto sia importante farlo «in un clima di leale collaborazione». «A questo mondo - spiega il ministro - non vi è nulla di eterno tranne le parole del Signore. Il resto è mutevole, così è la Costituzione».
Il riferimento è alla separazione delle carriere, ma sullo sfondo c'è il premierato.Il clima di tregua dovrebbe reggere anche oggi, quando Crosetto riferirà alla Camera per rispondere all'interpellanza di Benedetto Della Vedova (+Europa). Poi chissà.
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