«C'è tanta carne al fuoco» dice il presidente della Corte d'Appello di Brescia, Antonio Minervini, riferendosi a tutte le criticità e alle nuove prove, esposte ieri, che contrastano con la sentenza di condanna a Olindo Romano e Rosa Bazzi: dalla fallacia del ricordo del supertestimone alle prove scientifiche dei Ris che confermano la presenza di estranei nel luogo del delitto.
«Sono stati abbandonati al loro destino» dall'allora legale Pietro Troiano e dal consulente della difesa Massimo Picozzi, sentenzia Fabio Schembri, puntando il dito contro il criminologo più interessato a fare dei suoi interrogatori difensivi «una trilogia che sarebbe diventata un libro e poi trasmessa anche in tv (peraltro spacciata per confessione, ndr) prima del processo», piuttosto che a spiegare al suo assistito che «non esistono celle matrimoniali né pene condivise», a loro prefigurate prima della confessione dopo la quale, sottolineano i legali della coppia, i due erano «stranamente euforici», come se la condanna fosse «un viaggio alle Maldive, dove si può anche lavorare», mentre solo qualche ora prima «Olindo era pronto a sacrificare se stesso», confessando un reato che non aveva commesso, pur di salvare la moglie Rosa, «affetta da ritardo mentale, una che non distingue la destra dalla sinistra, non sa scrivere né leggere».
La difesa ha messo in fila tutte le questioni contenute nelle perizie e sostenute dai 33 testi di cui ha chiesto l'ammissione. La macchia di sangue trovata sull'auto «non è mai esistita», «Olindo Romano e Rosa Bazzi subirono pressioni per confessare, incapaci com'erano «di mettere in piedi un alibi assai complesso, come confessare con 243 errori per tenersi una porta aperta alla ritrattazione», né di avere la perizia - sottolinea Luisa Bordeaux - di infliggere a tutte le vittime i colpi alla carotide.
Ma è la pista alternativa quella che potrebbe convincere la Corte. Tante le prove convergenti: il supertestimone Mario Frigerio che riconosce l'aggressore come un estraneo di etnia araba che frequenta l'appartamento, due testi che riferiscono tre immigrati scappare dalla Corte alle 20.20, il regolamento di conti tra bande confermato da un ex pusher del clan di Azouz Marzouk e ribadita da un documento della Guardia di Finanza che nel 2005 indagava sulla piazza di spaccio, l'impossibilità dei due di uccidere Valeria Cherubini nel suo appartamento, come oggi ammette l'anatomopatologo Giovanni Scola e di scappare senza essere visti.
Non sono mancate le schermaglie tra Nico D'Ascola, il procuratore generale Guido Rispoli e con l'avvocato generale Domenico Chiaro, pizzicati dal legale a scuotere il capo,
durante la sua arringa. I due sono bacchettati anche da Minervini: «Evitate plateali manifestazioni di dissenso». Tra le pausa del processo sembra tornare la pace. Ma solo fino alla prossima, decisiva udienza del 10 luglio.
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