I meriti umani di Enrico e gli errori di Berlinguer

Di lui è oggi ammesso soltanto parlar bene, quasi che alle innumerevoli categorie di eresia del nuovo puritanesimo che va sotto il nome di "politicamente corretto" se ne fosse aggiunta un'altra: quella di "berlinguerfobia"

I meriti umani di Enrico e gli errori di Berlinguer
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A quarant'anni dalla morte di Enrico Berlinguer, la beatificazione dell'allora segretario del partito comunista italiano non conosce ostacoli. La sua fine in qualche modo eroica, al termine di un ultimo drammatico comizio in cui era stato colpito da un malore fatale, commosse in quel giugno 1984 l'Italia intera. E, abbastanza incredibilmente, un'eco di quella partecipe commozione è percepibile tuttora, a generazioni di distanza. Di lui è oggi ammesso soltanto parlar bene, quasi che alle innumerevoli categorie di eresia del nuovo puritanesimo che va sotto il nome di «politicamente corretto» se ne fosse aggiunta un'altra: quella di «berlinguerfobia». Azzardarsi a osservare che, sotto il profilo politico, l'oggetto di tanti dolenti rimpianti non ne aveva quasi azzeccata una, è un rischio. Ma vogliamo correrlo.

È giusto partire dai meriti di Berlinguer, che ci furono. L'uomo era onesto e rispettoso dei suoi avversari, alieno da quei modi aggressivi che hanno purtroppo impestato la politica italiana degli ultimi decenni. Indro Montanelli, che mezzo secolo fa aveva fondato questo giornale proprio per combattere il conformismo dilagante nei confronti del Pci col vento in poppa, sintetizzò così: «Può anche aver commesso errori, ma mai disonestà o bassezze».

Ciò detto, assistere nel 2024 a tentativi di proporre Enrico Berlinguer come modello politico per il futuro, fa cadere le braccia. I laudatores odierni si sforzano di presentarcelo come non era: il precursore di una sorta di partito di massa dei diritti, tollerante e meno che mai marxista. Non è così: la sinistra di Berlinguer era fieramente comunista e basta. Il Berlinguer che a parole difendeva l'agibilità politica di Dubcek è lo stesso che cacciò dal Pci gli «eretici» del Manifesto. Il suo vero nemico politico era il socialista Bettino Craxi, che lo sfidava a viso aperto battendosi per un riformismo davvero democratico che nel Pci tutti consideravano alieno. A Berlinguer, semmai, piaceva Aldo Moro, l'uomo del compromesso Dc-Pci in cui vedeva la disponibilità a subire una prospettiva di subalternità.

Se oggi il Pd può presentarsi come un partito della sinistra europea, è proprio perché ha gettato alle ortiche l'armamentario ideologico che per l'allora segretario del Pci era naturale come l'aria che respirava. Si cerca di accreditare la leggenda di una volontà di Berlinguer di cambiar nome al Partito, solo perché ne avrebbe accennato durante una conversazione privata rimasta senza conseguenze. Ma la verità storica dice che di quel nome il Pci si liberò con lagrimosa fatica a sei anni dalla morte di Berlinguer, quando il collasso sovietico apparve certo.

Berlinguer era un uomo del passato già quando era in vita, figuriamoci adesso. Il suo eurocomunismo era la più blanda e confusa delle eresie parolaie, con un'idea di pluralismo che prevedeva il Pci sempre al timone.

Quando, forte del 33% preso alle elezioni del 1976, sostenne dall'esterno il governo andreottiano della «non sfiducia», voleva introdurre in Italia «elementi di socialismo» come il divieto di cercare lavoro attraverso società private; in seguitò tentò invano di salvare con un referendum la rovinosa «scala mobile» a tutto danno dell'economia italiana; quando Yuri Andropov tentò di imporre coi missili nucleari la sovranità limitata anche all'Europa occidentale, non denunciò il suo tentativo di dominarci, ma fece esattamente ciò che a Mosca si aspettavano da un partito fratello: si mise alla testa delle «marce per la pace» dove si chiedeva a gran voce il disarmo unilaterale (il nostro, ovviamente). Senza dimenticare che i rubli del PCUS, con lui segretario, continuarono a fluire nelle casse del Pci.

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