Attribuire la colpa dell'attuale crisi energetica esclusivamente a una situazione internazionale sfavorevole, sarebbe non solo limitativo ma sbagliato. Se la guerra in Ucraina e le tensioni con la Russia rappresentano una causa importante dell'impennata dei prezzi dell'energia, andando più a fondo nella questione, ci sono cause altrettanto importanti che non sono tenute in dovuta considerazione. Anzitutto le modalità con cui è stata realizzata la transizione energica: troppo rapida nel dismettere gli impianti tradizionali e troppo lenta nel realizzare le rinnovabili.
Si tratta di scelte politiche errate di cui, tanto a livello europeo quanto italiano, pagano le conseguenze famiglie e imprese. L'Italia, a differenza di altre nazioni, subisce gli esiti nefasti del cosiddetto fenomeno nimby («Not in my back yard», «non nel mio cortile») per cui le opere di interesse pubblico non devono essere realizzati nei territori vicini ai propri interessi. Si tratta di una forma di protesta alimentata da minoranze rumorose che hanno rallentato o bloccato la realizzazione di opere strategiche in vari settori, dalle infrastrutture ai rifiuti, colpendo in particolare l'ambito energetico. Una parte della politica, invece di spiegare l'utilità di alcune opere per l'interesse nazionale e i benefici a medio e lungo termine, ha preferito assecondare il «no a tutto», salvo poi lamentarsi per l'aumento dei prezzi dell'energia. Si tratta di un approccio particolarmente diffuso a sinistra e, se è ormai noto il no al gasdotto Tap da parte del Movimento Cinque Stelle, si tendono a dimenticare altri gran rifiuti. Oltre a una progettualità, alla politica energetica italiana negli anni passati è mancato il coraggio.
Campione dei no è il governatore della Puglia del Pd Michele Emiliano che si schierò contro il Tap e, dopo una citazione a giudizio dei manager incaricati alla realizzazione dell'infrastruttura, dichiarò: «Chiederemo a Tap un risarcimento miliardario per il danno d'immagine causato alla Puglia con la costruzione del gasdotto a Melendugno».
Emiliano disse di no anche alla realizzazione di un grande impianto eolico offshore nel Salento. Stessa posizione del suo collega dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini che, riferendosi a un parco eolico nel mar Adriatico al largo di Bellaria e Cattolica, rispose: «Ho l'impressione conosciate molto poco il progetto. E conosciate molto poco il territorio riminese».
Più netto l'assessore regionale al turismo Andrea Corsini della giunta Pd: «Sono contrario a una foresta nel mare Adriatico». Solo pochi giorni fa il voltafaccia di Bonaccini intervenendo al Meeting di Rimini: «In acque romagnole daremo vita al parco eolico e fotovoltaico a mare più grande d'Europa».
I no della sinistra lambiscono un po' tutti gli ambiti energetici, dagli impianti eolici offshore (perciò rinnovabili) alle trivelle (nel 2012 Debora Serracchiani scriveva «Oggi a Monopoli ho partecipato alla manifestazione per la difesa del mare Adriatico dai rischi delle trivellazioni petrolifere») fino al gas e al nucleare.
Soli pochi mesi fa il Pd ha votato al Parlamento europeo il no al gas e al nucleare pulito nella tassonomia e, se la contrarietà al nucleare è condivisa con la sinistra di Fratoianni e con i Verdi, le frange più radicali anni fa si schieravano contro la realizzazione del rigassificatore a Gioia Tauro che oggi farebbe molto comodo.
Ciò testimonia come, ancor prima che politico, il problema dell'energia sia ideologico; finché continueremo ad avere in Italia una sinistra che dice no a tutto, per
poi lamentarsi dei costi energetici troppo alti, non potremmo ambire a una imprescindibile autonomia energetica. Di fronte alla crisi che stiamo vivendo, sarebbe almeno doveroso fare un mea culpa per gli errori del passato.
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