Attacchi suicidi, ordigni chiamati «pacco dell'amore», armi e telecamere per riprendere gli attacchi e soldi da inviare ai terroristi palestinesi. Non solo: un «ferro», probabilmente una pistola, procurata in Italia e un'ampia attività di propaganda con comunicati e video dei «martiri» che combattono contro Israele. Le 49 pagine dell'ordinanza della custodia in carcere firmata dal gip Paolo Belli per tre palestinesi accusati di terrorismo internazionale, svelano l'esistenza di una cellula a L'Aquila delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sulla lista nera di Stati Uniti e Unione europea.
Il capo è Anan Kamal Afif Yaeesh, 37 anni, già in carcere a Terni per una richiesta di estradizione israeliana. Assieme ad altri due palestinesi, Ali Saji Ribhi e Mansour Doghmosh, arrestati ieri, «promuovevano, costituivano, organizzavano, dirigevano, finanziavano una struttura operativa militare denominata Gruppo di Risposta Rapida - Brigate Tulkarem, articolazione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa con () finalità di compimento di atti di violenza a fini di terrorismo rivolti contro uno Stato estero (Israele), sia in territorio estero (palestinese, giordano e libanese), sia in territorio italiano (L'Aquila)». Tutti e tre vivevano nel capoluogo abruzzese.
Il capo «si ritraeva in immagini e video mentre imbracciava un fucile nonché () in uno screenshot di una videochiamata insieme a Munir Al Maqdah che alle sue spalle aveva due fucili, uno dei quali con ottica di precisione installata». Al Maqdah è il comandate militare delle Brigate Al Aqsa e generale del movimento al Fatah. Da L'Aquila «pianificavano dettagliatamente un'azione terroristica da compiersi nell'insediamento israeliano di Avnei Hefetz» in Cisgordania «mediante l'utilizzo di autobomba». Yaeesh il 19 maggio dello scorso anno spiegava via Telegram al capo delle Brigate al Aqsa che «la settimana prossima ti arriveranno delle telecamere da installare sul fucile e sui berretti, più giubbotti di protezione così ogni combattimento, ogni colpo viene filmato», come ha fatto Hamas durante l'attacco stragista del 7 ottobre.
Il palestinese che viveva a L'Aquila spiega che «si tratta di unità suicide, pronte ad agire in profondità». Non solo: inquietante il richiamo al prezzo del «pacco dell'amore», come un altro capo terrorista in Cisgiordania chiama un ordigno, forse un razzo, per colpire probabilmente Gerusalemme. Yaeesh assicura che gli invierà subito i soldi e chiede qualche foto dei «ragazzi con le bende delle brigate al momento del lancio» dell'ordigno.
I tre palestinesi arrestati sono formalmente disoccupati, ma risultano intestatari di decine di conti in diverse banche italiane. Il 9 gennaio il capo della cellula comunica al comandante dell'organizzazione terroristica in Cisgiordania che «la cifra totale che riceverai è di 51mila dollari» solo per Tulkarem. La Digos ha scoperto il saldo di una carta preparata Postepay del capo cellula di 95.760,59 euro. Yaeesh si raccomanda: «L'importante che fate addestramento per incursione o combattimento, state attenti ai cecchini». Nei video della propaganda del terrore non manca l'insegnamento «all'uso delle armi di giovani reclute e bambini, corredato da canti e musica». Il 30 gennaio gli altri due membri della cellula, Doghmosh e Irar, fanno riferimento a un «ferro», un'arma, forse una pistola, che bisogna andare a prendere probabilmente a Teramo. Nell'ordinanza si lancia l'allarme: «Appare formulabile l'ipotesi che si trattasse di un'arma da utilizzare o da avere comunque a disposizione in Italia».
Incredibile il curriculum di Yaeesh: aderisce alla lotta armata in Cisgiordania dopo che la sua fidanzata viene uccisa dagli israeliani come sospetta kamikaze. Per tre anni fa parte anche dei servizi segreti palestinesi. Nel 2006 viene ferito e arrestato in un raid di un'unità in borghese israeliana, stile Fauda, e finisce per quattro anni in carcere. Nel 2010 arriva in Europa con un visto norvegese. La richiesta di protezione internazionale viene respinta più volte. Dalla Norvegia prende un treno e arriva a Roma l'8 ottobre 2017, ma punta subito su L'Aquila.
Alcuni arabi gli dicono che è «una piccola città dove avrei avuto più possibilità di ottenere il permesso di soggiorno». Nella richiesta di protezione in Italia, che per questo motivo viene respinta, non nasconde il suo curriculum con le Brigate al Aqsa.
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