"I talebani non sono cambiati. Enorme sforzo per i rimpatri"

Il sottosegretario alla Difesa: "Stiamo salvando tutti quelli che hanno collaborato con le nostre forze armate"

"I talebani non sono cambiati. Enorme sforzo per i rimpatri"

Mentre ci sono politici in vacanza o che non rispondono al telefono, ministri che temporeggiano o non sanno che pesci prendere, altri si stanno impegnando notte e giorno per tirare fuori dall'inferno afghano quante più persone possibili. Giorgio Mulè (Forza Italia), sottosegretario alla Difesa, ha trascorso il Ferragosto al telefono e da 4 giorni non dorme per cercare di inserire nelle liste dei passeggeri in arrivo in Italia tutti i collaboratori e le loro famiglie che in questi anni si sono spesi per la pace del loro Paese.

Sottosegretario Mulè, qual è la priorità adesso?

«L'esigenza primaria è quella di riportare a casa il personale afghano e le loro famiglie grazie allo straordinario sforzo del comando operativo interforze guidato dal generale Luciano Portolano che dall'Italia coordina le operazioni».

Chi entra in queste liste?

«Sono liste che si formano sulla base di chi ha collaborato con la nostra ambasciata o con le nostre forze armate: interpreti, addetti, impiegati ai quali si aggiungono i loro familiari. È come se fossero liste di decollo, gruppi di 80-100 persone contattati uno per uno al cellulare dai nostri militari presenti nell'area (50-70) e convocati per partire. Queste persone non stanno tutte a Kabul, alcuni sono a Herat, vengono inseriti nelle liste di persone verificate per essere imbarcate per l'Italia e portati all'aeroporto di Kabul».

È complicato?

«È una situazione di grande confusione, abbiamo ricevuto decine e decine di passaporti e richieste di aiuto. Ora però ci stiamo normalizzando. Oggi (ieri, ndr) atterra un volo da Kabul con 86 afghani a bordo: 31 collaboratori del ministero, 36 dell'Ue, 8 contrattisti d'ambasciata e 7 familiari di connazionali. Poi abbiamo pronto un altro KC767 che farà avanti e indietro con Kabul nei prossimi giorni e numerosi C130 che possono partire. Uno con 103 afghani a bordo è appena decollato, altri due in serata (ieri, ndr). Quello che si sta facendo all'aeroporto di Kabul è riordinare il flusso di arrivi. È nostro compito garantire corridoi umanitari per rimpatriare le persone».

Come sente la gente al telefono?

«Sento lacrime e disperazione e mi immedesimo in loro che hanno bambini piccoli terrorizzati. Ma lo sforzo titanico che stanno facendo le nostre forze armate è quello di chiamarli uno ad uno e rassicurarli».

Come mai sono così spaventati?

«Questa è gente che ha conosciuto la violenza e il terrore dei talebani, hanno avuto familiari uccisi, subito torture».

Che situazione si vive a Kabul?

«Una situazione di calma apparente. Non c'è nessun atto ostile visibile nei confronti della popolazione perché devono far vedere al mondo di essere cambiati per cercare di essere riconosciuti. Non devono dare adito a nessun tipo di incidente».

Sono talebani più moderati?

«No, sono sempre gli stessi. Non sono cambiati. Gli stessi che lapidavano le donne adultere, che obbligavano le ragazzine di 12 anni a diventare schiave del sesso, che tagliavano le mani a chi rubava, che eseguivano esecuzioni di piazza. Noi non dimentichiamo queste cose per un grazioso annuncio e perché si sono sistemati le barbe. Non basta una rassicurazione, voglio vedere quando garantiranno alle ragazze di studiare, alle donne di lavorare, se saranno rispettate le condizioni minime di civiltà. Voglio vedere se manterranno quello che hanno annunciato. Dopodiché verificheremo, non possiamo firmare una cambiale in bianco ai talebani».

Potrebbe esserci una recrudescenza del terrorismo internazionale?

«Quella dei talebani è una bomba innescata. Dobbiamo solo vedere se la miccia è corta o lunga e se l'Afghanistan diventerà di nuovo la culla delle peggiori cellule terroristiche del mondo. Per questo la vigilanza e la prevenzione dell'Occidente sono un obbligo».

L'Occidente che è scappato come una lepre...

«Un ritiro frettoloso e sbagliato a mio modo di vedere. Un disimpegno non preparato le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. La decisione americana di andarsene subito è stata profondamente sbagliata e a noi, in quanto alleati di una coalizione, non è rimasto altro che adeguarsi a quella scelta».

Come giudica la nostra missione in Afghanistan alla luce di ciò che è successo?

«Giustissimo: vent'anni di sacrifici di sangue, con 54 nostri militari morti, per

aiutare quel popolo a garantire sicurezza e al mondo stabilità. È per questo che oggi abbiamo il dovere di non dimenticare quel sangue, abbiamo il dovere di tornare lì per non lasciare a metà quello che abbiamo iniziato».

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