Imparzialità, se l'ideologia sfida il buonsenso

Nei giorni scorsi si sono sollevate molte polemiche su un provvedimento del governo che dovrebbe riaffermare un principio: il fatto che un magistrato dovrebbe astenersi quando riguarda argomenti su cui ha assunto posizioni pubbliche

Imparzialità, se l'ideologia sfida il buonsenso
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A volte l'ideologia, più precisamente la pseudo ideologia giustizialista, offende anche monsieur de La Palice: ciò che dovrebbe essere normale, scontato secondo il buonsenso, diventa agli occhi dei cosiddetti benpensanti una rivoluzione o meglio una controrivoluzione.

Nei giorni scorsi si sono sollevate molte polemiche su un provvedimento del governo che dovrebbe riaffermare un principio: il fatto che un magistrato dovrebbe astenersi, cioè ritirarsi da un processo, quando riguarda argomenti, questioni o «casi» su cui ha assunto in precedenza posizioni pubbliche. In fondo è l'attuazione - blanda - di un principio di cui in questo paese tutti si riempiono la bocca quando nella realtà, invece, è da molto tempo che non è messo in pratica. Un principio che un tempo faceva parte dello stile, della deontologia di qualsiasi toga ma che negli ultimi trent'anni complice l'iperprotagonismo e - mi si consenta - una politicizzazione sempre più marcata di alcuni magistrati, è venuto meno. La formula forse è la più ripetuta di ogni esame in legge: «Un giudice non solo deve essere imparziale, ma apparire tale».

Ebbene questo assunto, che nessuno può mettere in dubbio, come si concilia con l'immagine di un giudice che ancor prima di pronunciar sentenza esprime platealmente il suo convincimento o addirittura un pregiudizio sul caso in questione? Non ci sarebbe neppure da discutere sull'argomento se tutti fossimo animati da un minimo di onestà intellettuale. Basterebbe mettersi nei panni di quell'imputato, di quell'associazione di cittadini, di quel governo che dovesse attendere una sentenza che un giudice ancor prima delle prove o del dibattimento ha già pronunciato: sicuramente non lo riterrebbero imparziale. Insomma siamo all'abc del diritto o, almeno, dovremmo esserlo. E, invece, questa elementare verità viene considerata dai magistrati un'aggressione, un colpo alla loro autonomia. In realtà siamo di fronte a un paradosso letale che dimostra come trent'anni di giustizialismo esasperato hanno cambiato, per non dire corrotto, il costume delle nostre toghe. Ieri l'ex-presidente della Corte Costituzionale, Gaetano Silvestri, criticava le iniziative del governo sulla riforma della giustizia confidando che era tentato di scrivere un pamphlet di elogio della Prima Repubblica. Magari posso anche condividere la nostalgia, solo che all'epoca i magistrati erano ligi a imporsi il silenzio proprio per apparire imparziali. Prima di un dovere, appunto, era uno stile. Da allora sembrano essere trascorsi anni luce e si ha la netta sensazione che la condizione della nostra giustizia sia cambiata in peggio. In trent'anni abbiamo assistito a proclami, a giudici che sparlavano dell'imputato che avrebbero giudicato e poi condannato, di pm che nascondevano prove della difesa e di alzate di scudi verso ogni riforma della giustizia che limitasse il Potere conquistato nella prassi dalle toghe. Soprattutto, i magistrati si sono arrogati il diritto di intervenire nel processo legislativo mettendo in discussione l'equilibrio dei poteri. Se prima si limitavano non ad applicare le leggi (beata Francia) ma a interpretarle, ora pretendono anche di concorrere a scriverle. E se non gli è concesso innalzano barricate. Ora nessuno vuole mettere il bavaglio ai giudici ma per alcune categorie il silenzio dovrebbe essere d'oro. Immaginate se i corpi di polizia, i carabinieri, l'esercito si mettessero a concionare su questa o quella legge, se sostenessero che andrebbe ritirata o modificata, dove finiremmo? Qui non si tratta dell'autonomia del magistrato ma dello spirito istituzionale a cui dovrebbero ispirarsi le toghe. E non dovrebbe essere considerata un'imposizione visto che un'altra regola aurea finita da troppo tempo in soffitta recita: i giudici parlano con le sentenze o, per meglio dire, con gli atti processuali. Il buon mondo antico caro al prof. Silvestri.

È proprio vero: se seguissero alla lettera tutti questi principi che non si stancano di ripetere solennemente nei tribunali i nostri magistrati sarebbero quei figli diretti di Beccaria che in realtà almeno in parte, duole dirlo, non sono.

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