Non è solo questione di creare adulti in grado di usare gli apostrofi o di fare due conti a mente. È anche questione di formare persone in grado di ragionare con la propria testa e non bersi tutte le cavolate che leggono sui social. Persone capaci di porsi delle domande sulle cose, senza farsi manovrare. E in grado di costruirsi una professione, con consapevolezza. È per questo che non si può accettare una scuola ignorante.
Eppure i dati delle prove Invalsi, presentati ieri alla Sapienza di Roma, qualche dubbio lo fanno venire, con un maturando su due non proprio preparato. «Ben 40mila diplomati rischiano di non avere la formazione minima per le funzioni necessarie a questo Paese» denuncia il presidente di Invalsi, Roberto Ricci.
E va bene il Covid, va bene la Dad - che per forza di cose hanno peggiorato il livello di preparazione degli studenti - ma probabilmente c'è dell'altro. Il report di Invalsi dimostra come le fragilità che si evidenziano alle elementari si accentuino negli anni di studio successivi.
Se la scuola primaria tutto sommato tiene, con dati simili al periodo pre-pandemia, i problemi si concentrano alle scuole superiori con importanti differenze tra Nord e Sud: il 9,5 per cento degli studenti termina il percorso di studi con competenze in italiano fortemente inadeguate.
Dopo 13 anni di scuola, quasi la metà degli studenti italiani non raggiunge la sufficienza né in italiano né in matematica, con esiti medi sotto la soglia, per matematica, in 7 regioni del Centro-Sud - Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna - per italiano in 6 (le stesse tranne il Lazio) con il 55%-60% degli allievi che non raggiunge il livello base, fino ad arrivare a quasi il 70% in Sardegna. Una catastrofe educativa che vede allargarsi ulteriormente i divari territoriali, quelli tra scuole e addirittura tra classi e fa assistere a «perdite consistenti di apprendimento» soprattutto tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli.
Se nel 2019 i giovani che terminavano il percorso di studi senza avere però le competenze di base necessarie erano il 7,5%, nel 2021 sono saliti al 9,8%, e nel 2022 si sono fermati al 9,7%. Negli uffici Invalsi la chiamano «dispersione scolastica implicita».
I test - che hanno coinvolto oltre 920mila allievi della scuola primaria, 545mila studenti della scuola secondaria di primo grado (classe III) e poco più di 953mila della scuola secondaria di secondo grado - raccontano anche di divari territoriali molto ampi.
«I dati impongono una riflessione molto seria sulla necessità di riformare la scuola - commenta il presidente di Anp, l'Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli - Se da una parte alcuni dati ci lasciano qualche margine di positività - vale a dire l'arrestarsi del crollo delle percentuali di apprendimento registrato lo scorso anno scolastico - è pur vero che ci sono tanti, troppi segnali rivelatori di un malessere che non può lasciare indifferente il Paese». Di fatto nel post pandemia sono esplosi «in tutta la loro virulenza tutti i mali noti della scuola». Per quanto riguarda la dispersione scolastica, «sono tanti gli strumenti che abbiamo a disposizione - elenca il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi -: la riforma degli istituti tecnici superiori per dare agli studenti l'opportunità di trovare una direzione specifica è molto importante. E poi la riforma della scuola tecnico professionale. Lavoriamo al tema dell'orientamento». Il ministro fa la sua diagnosi: «La presenza ci ha permesso di frenare la caduta e anche di riprenderci. Abbiamo cicatrici addosso, è vero, sulla matematica per esempio.
La pandemia ha aumentato le differenze ma in alcune regioni del sud c'è stata una capacità di reazione, per esempio sulla dispersione. Ci vuole tempo: una pandemia così totale, non conclusa e così permeante ha lasciato tracce ma il sistema esprime una volontà di reazione».
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