Improbabili nuove elezioni. Il vero rischio è la guerra civile

Nessuno vuole le riforme radicali che il Paese invoca

Improbabili nuove elezioni. Il vero rischio è la guerra civile

Stallo, che potrebbe portare alla guerra civile. Governo di unità nazionale caldeggiato dal presidente francese Emmanuel Macron, che liscia il pelo ad Hezbollah. Elezioni, improbabili, che non cambierebbero radicalmente il quadro per colpa del manuale Cencelli confessionale del sistema politico e istituzionale libanese. Dopo le dimissioni del governo di Hassan Diab, durato solo sei mesi, sono gli scenari per l'immediato futuro del paese dei cedri sempre più fosco.

Il premier libanese non aveva altra scelta che dimettersi avendo perso 4 ministri in poche ore, ma di fatto resterà in carica per gli affari correnti. Una «soluzione» che permetterebbe di prendere tempo ai partiti forti della maggioranza ovvero gli sciiti di Hezbollah, Amal e gli alleati del Fronte patriottico del capo dello stato cristiano, il generale Michel Aoun. Il governo Diab era nato come «indipendente», con l'obiettivo delle riforme, ma di fatto ha padrini ben precisi in Parlamento che puntano allo status quo. Lo dimostrano le dimissioni del ministro degli Esteri, Nassif Hitti, il 3 agosto, un giorno prima della tragica esplosione di Beirut. Il responsabile della diplomazia aveva denunciato «l'assenza di una chiara volontà di riforme strutturali. Il Libano sta diventando uno stato fallito». Non solo: il ministro degli Esteri veniva scavalcato dal generale Abbas Ibrahim, capo dell'intelligence interna, vicino ad Hezbollah nel rapporto con determinati stati come l'Iran.

L'attuale maggioranza parlamentare non vuole nominare un governo veramente indipendente, per riforme radicali, come chiede la piazza. E di fronte «lo stallo si rischia una scintilla che potrebbe provocare la guerra civile» spiega un veterano del sanguinoso conflitto del 1975. La piazza che protesta è composta da gruppi eterogenei che vanno dall'estrema sinistra, all'Osservatorio popolare per la lotta alla corruzione dello sciita Wassef Al Karak distante da Hezbollah, neo liberisti filo americani, cristiani come Sami Gemayel, erede della dinastia falangista, intellettuali e frange sunnite. Il 18 agosto il verdetto dell'Onu sull'omicidio del premier Rafiq Hariri nel 2005 potrebbe condannare quattro esponenti di Hezbollah. Una scintilla perfetta per scatenare scontri settari, che i sunniti del nord preparano da tempo. Saad, figlio del premier assassinato, pure lui ex capo del governo non controlla tutto il blocco sunnita. Ashraf Rifi, ex capo dalla sicurezza interna e Bahaa Hariri, fratello maggiore di Saad sono le eminenze grigie del calderone sunnita di Tripoli, che fornisce la manovalanza più estrema per la piazza di Beirut. E sul capoluogo del nord sta espandendo la sua influenza il «neo sultano» turco Erdogan.

L'esercito, nonostante il comandate cristiano Joseph Aoun miri a diventare presidente della Repubblica, non può prendere il potere perché si spaccherebbe lungo le linee confessionali delle brigate. La Francia spinge nella direzione di un governo di unità nazionale, sistema non nuovo in Libano, che non ha mai prodotto i risultati sperati a cominciare dalla riforme chieste a gran voce dai «rivoluzionari» che stanno assediando il Parlamento. I veti incrociati bloccherebbero un nuovo sistema elettorale che spezzi il giogo confessionale, la lotta alla corruzione e una giustizia sganciata dai partiti. E alcuni partiti non accetterebbero di mescolarsi con altri.

Non a caso il leader cristiano maronita delle Forze libanesi, Samir Geagea, ha chiesto elezioni politiche anticipate assieme ai drusi di Walid Jumblatt ed i sunniti di Futuro guidati da Saad Hariri.

Ai cristiani dell'opposizione converrebbe il voto perché potrebbero spolparsi una fetta dei parlamentari del presidente Aoun crollato come credibilità. Il quadro politico, però, non cambierebbe a tal punto da permettere le riforme radicali necessarie al paese per uscire dal tunnel.

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