L'indennizzo negato ai familiari dei medici morti per Covid è stato soltanto l'ultimo schiaffo per i camici bianchi impegnati allo stremo sul fronte della pandemia. Ma lo sciopero, proclamato infatti soltanto da due organizzazioni sindacali della medicina territoriale, Smi e Simet, non è condiviso da tutta la categoria. Un scelta sbagliata perché, denuncia la Federazione dei medici di medicina generale, Fimmg, il paese non è ancora uscito dall'emergenza e con lo sciopero si finisce per penalizzare soltanto i pazienti.
Gli ambulatori dei medici aderenti a Smi e Simet (circa il 10% per cento del totale) resteranno chiusi l'1 e il 2 marzo, giornata nella quale i camici bianchi hanno convocato anche una manifestazione a Roma davanti al ministero della Salute. «Il malessere della categoria è palpabile: carichi di lavoro insostenibili mancanza di tutele, burocrazia aberrante e non ultimo il mancato indennizzo alle famiglie dei colleghi deceduti per Covid», scrivono i medici in una nota rivendicando le stesse tutele degli altri lavoratori: «Ferie, maternità, malattia». A pagare il prezzo più alto le donne medico per l'impossibilità di coniugare il lavoro al diritto alla vita familiare e personale. I sindacati denunciano la mancata parità di accesso alle cure per i cittadini: sono più di tre milioni gli italiani privi del medico di famiglia mentre anche le postazioni di guardia medica vengono chiuse o accorpate per mancanza di personale. È necessario infine istituire un corso di specializzazione specifico in medicina generale.
Silvestro Scotti, segretario generale Fimmg, condivide le ragioni della protesta ma non lo sciopero. «I medici di famiglia sono in forte sofferenza. È innegabile. Così come è evidente che, in questa pandemia, stiamo sopportando un carico enorme, soprattutto burocratico, che si è sommato all'aumentata pressione assistenziale - spiega Scotti - Ma nel corso di un'emergenza come questa, crediamo che non si possa indire uno sciopero della categoria perché ne sarebbero penalizzati soprattutto i cittadini con i quali abbiamo un patto di fiducia che non possiamo tradire». Oltretutto, riflette Scotti, chiudere gli studi significherebbe soltanto ingolfare il sistema con le visite rinviate. Le azioni di «disturbo» insiste Scotti, vanno indirizzate alla politica non certamente ai pazienti.
Per il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, occorre «che i gruppi parlamentari trovino una formulazione concertata con il governo e in Parlamento per dare un segnale alle famiglie dei medici deceduti». Insomma devono arrivare i ristori che dovrebbero aggirarsi intorno ai 20 milioni di euro per i liberi professionisti.
Sul tavolo del confronto c'è anche la riforma della medicina del territorio che va recepita dalle regioni e che è necessaria anche per sbloccare i fondi del Pnnr. Per Fp Cgil questi finanziamenti sono l'occasione per costruire servizi di salute integrati con gli enti locali e con la scuola, le comunità di cura. Opportunità da non sprecare, lasciando però «immodificato», avverte la Cgil, l'attuale sistema delle cure primarie. La riforma prevede che i medici di base lavorino sia nelle strutture sanitarie sia nei loro studi per un orario di almeno 38 ore settimanali.
E proprio ieri la vicepresidente e assessore al Welfare, Letizia Moratti, ha ribadito che l'impianto della riforma della sanità territoriale lombarda ha avuto il via libera dal governo, a parte poche osservazioni su «imperfezioni burocratiche» sottolineando che quella lombarda «è la prima norma in Italia ad utilizzare i fondi previsti dalPnrr».
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