«Io di questo sistema sono una vittima, da sempre. Perché sono uno dei pochi che si è ribellato».
Non ci sta Alfonso Sabella, oggi giudice del tribunale di Napoli, a ritrovarsi indicato nella lista dei 133 testimoni che Luca Palamara vuole portare davanti alla sezione disciplinare del Csm. Sono i politici e le toghe che secondo Palamara hanno partecipato alla sistematica spartizione delle cariche grandi e piccole della giustizia italiana. «Mentre io - dice Sabella - sono uno di quelli che non hanno mai voluto fare carriera». Così reagisce, e chiede il diritto di dire la sua.
Allora perché Palamara vuole che lei venga sentito sulla sua candidatura ala Procura nazionale antimafia?
«L'unica spiegazione è che Luca voglia raccontare anche l'altra faccia della medaglia, dimostrare che i pochissimi magistrati non allineati, non inseriti nel mondo delle correnti non avevano nessuna possibilità di ottenere gli incarichi. Infatti venni bocciato nonostante i miei titoli superiori a tutti».
Mai avuto la tentazione di stare al gioco?
«Mai. Con il mondo dell'Associazione magistrati ho troncato ogni rapporto trent'anni fa, quando Giovani Falcone venne trombato dalla sua stessa corrente».
La vicenda Falcone fu eclatante. Ma l'inchiesta su Palamara oggi rivela un degrado aldilà dell'immaginabile.
«Non era immaginabile solo per chi non voleva vedere. Bastava vedere la regolarità da manuale Cencelli con cui venivano distribuite le cariche: 4-2-2-2 fisso quando le correnti erano quattro, poi passato al 4-4-2 quando a sinistra è nato il correntone di Area. E guardi che il grande mercato non riguardava solo i posti direttivi, le cariche in vista, ma anche e soprattutto i semidirettivi, i procuratori aggiunti, i presidenti di sezione. Lì accadeva di tutto».
Tutti complici?
«Poche voci di dissenso nel deserto. Molti che oggi fingono di scandalizzarsi erano perfettamente consapevoli che il meccanismo fosse questo. Palamara era uno dei tanti, forse solo più abile e esperto».
Lui dice che a dirigere gli uffici giudiziari mandavano comunque magistrati capaci.
«Il problema è che tutte queste persone non sono andate lì perché erano le più brave ma in seguito a trattative, accordi, appoggi. Certo, ogni tanto hanno beccato anche il magistrato migliore: ma non l'hanno preso per la competenza, lo hanno scelto solo per l'appartenenza».
Però lei a andare alla procura antimafia ci provò.
«Un errore di gioventù. Da allora non ho più avanzato nessuna richiesta, voglio morire giudice di primo grado, non permetterò mai più a un Csm eletto in questo modo di esprimere giudizi sulla mia persona».
Come andrebbe nominato il Csm?
«Io sono ideologicamente contrario al sorteggio, ma oggi non c'è alternativa se si vogliono cambiare le cose».
La Costituzione dice che il Csm va eletto.
«Perché, quelle fatte finora sono elezioni? All'ultimo giro i pubblici ministeri italiani votarono con quattro candidati per quattro posti: le correnti si erano già messe d'accordo prima imponendo i loro accoliti, si poteva anche fare a meno di andare a votare».
Forse servirebbe introdurre criteri più oggettivi per la nomina dei capi.
«Sarebbe inutile. Diventerebbero capi quelli che oggi sono vicecapi e che lo sono diventati beneficiando del sistema correntizio. Ormai il vulnus è irreparabile».
I magistrati qualunque, quelli fuori dai riflettori, come la vivono?
«La stragrande maggioranza dei miei colleghi pensano che l'autonomia e l'indipendenza siano un diritto, così decidono loro quando esercitarlo. Non capiscono che invece sono un dovere. Sa qual è un'altra conseguenza?».
Dica.
«Chi è fuori dai giochi deve sapere non solo che non verrà mai scelto per un incarico. Deve sapere anche che se qualcuno per motivi ideologici, privati o personali decide di fargli del male, il sistema non lo proteggerà. Se sei uno dei loro ti proteggono, altrimenti vieni devastato».
È il caso dei tre milioni che la Corte dei conti vuole farle pagare per il G8 di Genova?
«Non ne voglio parlare perché sono sub iudice. Lo farò nelle sedi opportune. O lo faranno i miei eredi».
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