Nella città santa sciita di Kerbala la folla assalta il consolato iraniano al grido «fuori dall'Irak». In Libano affollatissime manifestazioni pretendono da settimane la fine di un sistema politico fondato sulla spartizione del potere in base a criteri religiosi, e il primo a temere un attacco alla propria egemonia è Hezbollah, braccio politico armato di Teheran nel Paese dei cedri. In Siria le forze armate della Turchia di Erdogan si ritagliano uno spazio nel territorio che Bashar el-Assad è tornato a sperare di controllare grazie all'aiuto militare anche degli ayatollah. Cosa sta succedendo nel «vicino estero» (per usare un'espressione coniata a Mosca) dell'Iran, che ambisce a crearvi una «mezzaluna sciita» che da Teheran arrivi fino alle coste del Mediterraneo? E perché in queste stesse ore la Repubblica Islamica fondata da Khomeini torna a schiacciare l'acceleratore della sfida nucleare all'Occidente e a Israele?
Ieri alti responsabili del governo e delle forze armate iraniane hanno annunciato il rilancio in grande stile della produzione di uranio arricchito, indispensabile ingrediente per la produzione di bombe atomiche. «Ne produciamo cinque chilogrammi al giorno», ha detto Ali Akbar Salehi, vice presidente della Repubblica e capo dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica. Significa dieci volte di più rispetto a due mesi fa, quando Teheran annunciò la decisione di staccarsi progressivamente dall'intesa firmata nel 2015 con un gruppo di potenze composto dagli Stati Uniti di Obama, dalla Cina, dalla Russia e da Francia, Regno Unito e Germania autonomamente oltre che dall'Unione Europea in quanto tale. L'annuncio è arrivato in una data fortemente simbolica, il quarantesimo anniversario della presa di centinaia di ostaggi nell'ambasciata americana a Teheran. E agli Stati Uniti, tanto per cambiare, la Repubblica degli ayatollah iraniani attribuisce tutte le colpe delle proprie azioni. «Non avremmo voluto prendere queste misure ha detto Salehi ma sono state le politiche sbagliate di Washington a spingerci a farlo».
Parole ancor più dure, secondo uno schema ormai classico, ha pronunciato il capo dell'esercito iraniano, Abdolrahim Moussavi: «La loro ostilità nei nostri confronti continuerà, loro sono come uno scorpione dal veleno mortale che non smette di nuocere neppure quando viene schiacciato: non dobbiamo dialogare con loro». Immancabilmente, in tutte le principali città iraniane si sono svolte dimostrazioni antiamericane, con slogan che invitavano a mantenere vivo «lo spirito della rivoluzione islamica». A lui e a Salehi ha risposto il portavoce della Casa Bianca, assicurando che finché Teheran continuerà a «preferire sequestri di ostaggi, assassinii, sabotaggi, dirottamenti di navi e attacchi al mercato mondiale del petrolio», gli Stati Uniti risponderanno con «rovinose sanzioni», alla lista dei cui destinatari proprio ieri hanno aggiunto nove membri del circolo dei più vicini collaboratori della Guida suprema Ali Khamenei.
Ed è un fatto che queste sanzioni stiano strangolando l'economia dell'Iran, che altrettanto certamente cerca, indicando con veemenza ai suoi cittadini-sudditi nemici esterni, di orientare altrove il loro risentimento e la loro collera. Gli Stati Uniti e Israele, che da quarant'anni viene apertamente minacciato di annientamento in nome dell'islam, costituiscono i bersagli perfetti, il Grande Satana e il Piccolo Satana della forsennata propaganda dei fanatici al potere a Teheran. Ma quanto sta avvenendo nel «vicino estero» è per Khamenei e i suoi fedeli motivo della massima preoccupazione.
Il nuovo «autunno arabo» in Libano e in Irak, oltre ai rimescolamenti di carte in Siria, rischia di sconvolgere la strategia espansionistica del regime. Per salvaguardare la quale gli eredi di Khomeini sarebbero capaci di cambiare il loro stile: dalle lusinghe della diplomazia alla guerra aperta in Medio Oriente.
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