Il popolo d'Israele adesso può finalmente aspettare a casa la piccola Avigail Idan, tre anni e mezzo: la vede già nell'immaginazione con gli altri bambini fuori delle rovine di Gaza. Cammina verso ciò che le è rimasto in questo mondo ma non sono i suoi genitori: il 7 ottobre sono stati trucidati da Hamas davanti ai suoi occhi. Tuttavia forse verrà a casa e sarà abbracciata. Donne e bambini, secondo l'accordo, saranno 50 contro 150 palestinesi: gli israeliani saranno in gruppi di dieci-dodici distribuiti su 4 giorni di tregua, in cui Hamas riceverà in cambio donne e ragazzi in prigione, benzina, cibo e soprattutto tempo per riorganizzarsi, fuggire, sistemare i missili e gli esplosivi. Gli ostaggi saranno l'ombra di ciò che erano, stupefatti, malati, stanchi, forse per sempre feriti nel corpo e nella mente, specie i più piccini. Non è chiaro se i 210 (dicono loro) figli e le mamme saranno insieme quando escono dalle mani di Hamas e 30 in quelle della Jihad islamica.
Già Sinwar intorbida le acque, fa sapere che di alcuni non si sa dove siano, chissà dove sono andarti a finire. Nel buio delle gallerie? Presso qualche banda di criminali complici della strage? Affidati a famiglie adesso al Sud? Ogni possibilità sarà una buona ragione per rimandare, imbrogliare, approfittare, Sinwar costruisce qui una storia infinita di promesse e imbrogli per spezzare il morale di Israele e guadagnare tempo. Mentre Israele pensa uno a uno ai volti dei propri cari e già si contorce su chi sì e chi no, Sinwar già fa circolare un altro numero, 80 ostaggi, e quindi altri da scambiare dopo i 50 previsti per prolungare la tregua di giorno in giorno. Il suo calcolo prevede che lo scontro fra le famiglie dei rapiti su cui si tratta e quelli, come i soldati, che Hamas terrà fuori, metta Israele in uno stato di rottura e di pena fino a una crisi interna, capace di investire anche l'esercito, i ragazzi che combattono fianco a fianco sulla sabbia di Gaza. Il loro lavoro quotidiano è già costato 68 vite del fior fiore della gioventù, dopo la strage di più di 300 soldati nell'ambito dei 1.400 uccisi il 7 ottobre: ma la loro determinazione a vincere insieme, ha travolto Hamas molto oltre le aspettative di Sinwar.
Il piano era infliggere a Israele un colpo letale e riceverne in cambio soltanto una delle consuete sventole, un'operazione come quelle precedenti che avrebbe lasciato in piedi il regime dell'organizzazione terrorista peggiore dell'Isis. Non è andata così: la decisione strategica è stata quella di combattere fino in fondo una guerra indispensabile a sopravvivere. La comprensione dell'aut aut che un vicino come Hamas pone allo stato ebraico, la minaccia letale ha portato a occupare il Nord della Striscia, scoperchiando e distruggendo il cuore della forza di Hamas, le gallerie sotto gli ospedali, gestendo con capacità la delicata operazione anche di fronte alle proteste internazionali, mentre Hamas faceva della gente un gigantesco scudo umano e Israele dimostrava che gli ospedali erano la loro fortezza. Hamas non se l'aspettava: l'Iran, il suo patron, ha dichiarato che con quella guerra non ha niente a che fare, scioccato dall'accerchiamento degli amici in cui ha investito buona parte del suo sogno di distruggere Israele. Adesso Hamas magari immagina che dopo l'interruzione, eventualmente prolungata fino a che ci saranno altri ostaggi da scambiare, Israele mollerà la presa e magari si avvierà a un cessate il fuoco definitivo. Non avverrà. Hamas non capisce Israele, lo immagina occidentale, morbido, spaccato. Dice che è innamorato delle vita quanto gli shahid amano la morte: è vero.
Ma sottovaluta la nuova unità, nata con lo Stato d'Israele e molto forte dopo il 7 ottobre: la determinazione a combattere per la vita del popolo ebraico tante volte messa in forse dalle persecuzioni e dall'antisemitismo è totale. La guerra si interromperà forse giovedì per far tornare Avigail, ma durerà fino a quando Sinwar non sarà sconfitto.
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