Gerusalemme Fino a venerdì si parlava di una sola condizione sufficiente per Trump ad abbandonare il campo siriano ribollente: la sconfitta dell'Isis. Un obiettivo ormai grosso modo raggiunto secondo una valutazione dell'amministrazione americana giudicata da molti affrettata, e tuttavia data per acquisita. Via gli Usa, i topi ballano? Non ancora: da ieri possono interrompere le celebrazioni: le condizioni sono di nuovo diventate plurime e complesse, secondo il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, ieri a Gerusalemme. Il ritiro non è più ovvio, non ha più una scadenza, è di nuovo condizionato sia alla sconfitta dell'Isis (non data più per scontata) sia alla salvaguardia dei combattenti curdi, alleati degli Stati Uniti. Bolton ha anche ribadito la primaria fedeltà americana alla sicurezza dello Stato d'Israele. Un ufficiale anonimo ha anche aggiunto che non tutti gli americani se ne andranno, e resterà un presidio. Si dice anche che gli Usa stiano preparando una base in Irak che sorveglierà l'intera area e che potrebbe contenere una aeroporto militare. «Il programma scaturirà dalle decisioni politiche che abbiamo bisogno di realizzare» ha aggiunto l'ex ambasciatore degli Stati Uniti all'Onu, che ha voltato pagina rispetto all'incubo che la Siria rimanga preda di un Assad sostenuto dalle forze più ostili che Israele possa figurarsi: gli iraniani, gli Hezbollah, i turchi di Erdogan. E sullo sfondo il sostegno russo.
Venerdì Netanyahu ha telefonato a Putin e i due hanno discusso la nuova situazione. Putin probabilmente ha sempre considerato la questione israeliana come un tema collaterale rispetto all'affermazione della sua presenza in Siria, sostenuta da forze assemblate strumentalmente e non ideologicamente. Quindi, i due hanno parlato di politica perché la situazione sta cambiando di nuovo. E Putin non ce l'ha con Israele, specialmente quando è in ottimi rapporti con Trump.
Il premier israeliano a Bolton ha chiesto il riconoscimento della sovranità sul Golan in una situazione fra le più complesse che il Medio Oriente abbia mai conosciuto. Domani, il segretario di Stato intraprenderà un giro regionale: Giordania, Egitto, Barain, Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Oman, Kuwait. Un tour completo in cui si ribadirà che gli americani vogliono spingere avanti la componente sunnita (e i suoi legami con Israele), a fronte di una pesante presenza sciita in Siria, mal controbilanciata da una Turchia sunnita ma legata alla Fratellanza Musulmana e quindi malvista da Egitto e Arabia, e desiderosa soltanto di distruggere i curdi e di occupare porzioni territoriali che le garantiscano la cacciata dell'odiata etnia.
Ultimamente Bashar Assad ha festeggiato parecchi segnali di vittoria dopo 500mila morti: una nuova ambasciata degli Emirati a Damasco, la visita di Omar al Bashir dal Sudan, la riammissione nella Lega Araba. Mentre festeggiava però cercava di contenere le mosse del suo nuovo amico-nemico, Erdogan, che aveva già compiuto un'invasione di campo con l'attacco di Afrin buttando fuori i curdi e che adesso stava muovendo militarmente su Manbij nel Nord per lo stesso scopo. Ma la tv ha mostrato i siriani in uniforme muovere sulla stessa città contro ogni previsione, specie dei turchi stessi e dei gruppi ribelli che contano sulla Turchia.
Adesso che la Turchia, la Russia e l'Iran stanno per rincontrarsi ad Astana per una nuova spartizione, sarà più evidente a tutti che sul terreno ci sono non degli alleati, ma dei nemici che si contendono i brandelli. Mentre il solito Gendarme del Mondo resta in giro.
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