È difficile ormai non vedere l'elefante nella stanza. È lento, scorbutico, permaloso, fiacco, bizantino e a quanto pare poco affidabile. Non lo riconosce solo chi lo considera una sorta di divinità, sacro e intoccabile. Il pachiderma è la giustizia italiana. È lì, come una questione irrisolta, come se il solo indicarlo fosse blasfemia. Adesso però non si può fare davvero più finta di nulla. L'elefante è malato. Lo raccontano le storie di correnti e favori di Palamara. Lo dicono le statistiche sulla lunghezza dei processi. Lo sostiene il governo Draghi, che considera la riforma del ministro Cartabia uno dei punti irrinunciabili della sua azione politica. Lo certifica l'Europa, che invita l'Italia a fare qualcosa. C'è una relazione della Commissione Ue che assomiglia a una condanna. Non c'è giustizia se i processi durano una vita. Non puoi lasciare un imputato in attesa di una sentenza per anni. Non è facile investire su un Paese dove le cause civili, commerciali e amministrative finiscono quando magari l'azienda è già fallita. Ci vogliono 400 giorni per il primo grado, 500 per l'appello e 1300 per l'ultimo. È così da nove anni. Siamo gli ultimi in Europa per quanto riguarda la sentenza definitiva. Malta, che è penultima, ci mette la metà del tempo.
I magistrati godranno almeno di buona reputazione. Non è così. Il rapporto Ue cita un sondaggio di Eurobarometro. È di quest'anno. Quanto vi fidate dei giudici? Gli italiani non molto. Siamo al quintultimo posto in questa particolare classifica, peggio di noi Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Tutti Paesi ex comunisti, ma forse è solo un caso. Il motivo per cui siamo scettici è ancora più inquietante: gli italiani sospettano che giudici e pubblici ministeri siano sottoposti a pressioni e interferenze di politici o gruppi economici. Non è detto che sia davvero così, ma questa è una percezione diffusa. È comunque un segnale di malessere. Se una comunità non crede nell'indipendenza della magistratura lo Stato di diritto perde legittimità. È fragile. È dissacrato.
Questo apre una delle questioni referendarie aperte da Radicali e Lega. È la separazione delle carriere tra pm e giudici. Ne parla Didier Reynders, commissario europeo sulla Giustizia. Non è un tabù. La proposta non viene bocciata, ma andrebbe integrata con una riforma strutturale. «È necessario aumentare il numero dei giudici». L'Italia, anche in questo caso, è l'ultima in Europa. La spesa è in media con gli altri Stati, solo che da noi c'è una carenza ormai storica di magistrati. L'Europa ci invita a risolvere il problema in tempi stretti.
I Cinque Stelle restano i più scettici sulla riforma, ma arriveranno a un compromesso con Draghi. Enrico Letta si è finalmente pronunciato: «Dopo 30 anni questa è la volta buona». È molto più cauto il presidente dell'associazione nazionale magistrati. Giuseppe Santalucia, durante Radio anch'io, sulla Rai, si dichiara un po' perplesso sulla riforma della prescrizione. Un anno per il giudizio di appello e due per la Cassazione li ritiene troppo brevi. La bocciatura dei referendum è invece netta. Non ci sono sfumature: «Non comprendo perché farli nel momento in cui il governo ha messo su un cantiere così ricco di riforme».
Il timore dell'Anm è che il referendum finisca per essere un voto contro l'affidabilità della magistratura. È una paura che dice molto. È il segno che l'elefante adesso è lì e sta diventando difficile per tutti ignorarlo. La giustizia è palesemente un caso politico.
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