Kenya, caccia al superlatitante La mente del sequestro di Silvia

Said Abdi Adan è l'uomo più ricercato del Paese. Con due complici ha affittato la casa vicina a quella della giovane

Kenya, caccia al superlatitante La mente del sequestro di Silvia

Si chiama Said Abdi Adan l'uomo che potrebbe dare una svolta alle indagini del rapimento di Silvia Romano, 23 anni, la cooperante milanese rapita martedì sera a 80 km da Malindi, in Kenya, da una cellula terroristica degli Al Shaabab. In questo momento il latitante è forse l'uomo più ricercato del Paese. Gli inquirenti non solo sono convinti che abbia avuto un ruolo determinante nel sequestro della giovane italiana, ma sono venuti in possesso di documenti che comproverebbero un suo collegamento diretto in diverse azioni terroristiche perpetrate dagli Al Shaabab, nella contea di Kilifi, dal 2016. Ma prima di avviare qualsiasi trattativa, l'intelligence cerca la prova che la giovane sia in vita.

Sabato scorso Said è arrivato a Chakama assieme a due complici per affittare una casa a pochi passi dalla sede dell'Ong Africa Milele, dove viveva e lavorava Silvia. «Non hanno mai messo piedi fuori dall'uscio - racconta Malik Gacambi il custode dello stabile - li vedevo ogni tanto alla finestra a masticare Miraa (radice oppiacea), ma quando è avvenuto il rapimento loro se n'erano già andati via. Ho consegnato i suoi documenti alla polizia». È quindi molto probabile che il loro ruolo fosse quello di tenere sotto controllo la situazione, tentando di valutare il momento propizio per rapire la giovane. Ipotesi confermata dalle dichiarazioni rilasciate a caldo l'altro ieri dal capo della polizia locale Joseph Boinnet, che ha ricordato come gli Al Shaabab avessero fatto irruzione a colpo sicuro, «sapevano che in quei giorni la ragazza si trovava in casa da sola». Said e i due complici hanno lasciato l'abitazione martedì pomeriggio, poche ore prima del rapimento di Silvia.

Potrebbero essere invece dei fiancheggiatori i quattordici individui arrestati tra le località di Chakama e Galana Kulalu in una maxioperazione nell'ambito del rapimento della cooperante. Il comandante della polizia regionale costiera che ha condotto il blitz, Noah Mwivanda, non ha voluto aggiungere ulteriori dettagli sugli arrresti, ma ha lasciato intendere che le ricerche di Silvia si estendono oltre il fiume Tana, confermando le rivelazioni del testimone oculare del rapimento, Philip Ondinyo, che aveva raccontato di aver visto il furgone dei sequestratori dirigersi verso quel corso d'acqua. In direzione opposta di Langobaya (distante 20 km), dove si trova la caserma della polizia più vicina della zona. Sembra quindi che tutta l'operazione sia stata organizzata e condotta nei minimi dettagli, con diversi complici che a vario titolo hanno recitato la loro parte. Il canale televisivo kenyota K24 faceva notare ieri un dettaglio singolare: quando è stato lanciato il fumogeno, prima ancora che iniziasse la vera e propria sparatoria dei jihadisti, i proprietari dei bazar della zona sono fuggiti di corsa, quasi a voler dare campo libero ai terroristi, o come se quel fumogeno non fosse altro che un segnale concordato. Sempre il medesimo network ha rivelato che ieri alcuni abitanti della zona hanno tentato di aggredire membri di una comunità somala. «La convivenza sta diventando sempre più difficile - ha spiegato il parlamentare Michael Kingi - i kenyoti attaccano i somali perché li considerano vicini agli Al Shaabab. E il rapimento della donna italiana ha inasprito gli animi».

Intanto la famiglia di Silvia ha chiesto ai media di non essere più

contattata. Sua sorella Giulia ha spiegato che i Romano non condivideranno più «alcuna informazione finché Silvia non sarà a casa. Vi preghiamo di smetterla di cercare di contattarci, non ci piace stare sotto i riflettori».

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