Per una volta, forse una tra le prime, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov dice il vero quando afferma che allo stato attuale «siamo ancora molto lontani da una soluzione politica e diplomatica della crisi» in Ucraina. Non dice il vero, ovviamente, quando accusa gli Stati Uniti e Occidente per la guerra ma che il negoziato sia tutto in salita sembra essere vero. Anche se il capo dell'ufficio di presidenza di Kiev Andrii Yermak apre un nuovo spiraglio parlando di possibile soluzione riportando la situazione territoriale «al 23 febbraio 2022», alla viglia dell'invasione russa, quando la Crimea era comunque già sotto il controllo di Mosca. Quella concessione territoriale all'invasore che potrebbe alla fine avere un peso decisivo. Ma solo in un futuro non immediato.
Perché la guerra va avanti senza sosta con un copione ormai consolidato: la Russia colpisce le città ucraine (ieri allerta in tutto il Paese) e cerca di avanzare quanto più possibile sul campo, specie nel Donetsk e nel Kursk. Kiev invece, forte del via libera all'utilizzo dei missili in territorio russo, colpisce basi militari e depositi di armi oltreconfine. Ma i cambiamenti non sono per il momento decisivi in un senso o nell'altro. E allora ecco, parallela, la guerra di parole e la ricerca di un dialogo che rimane solo in potenza. Yermak oltre ad auspicare l'ingresso nella Nato per «incoraggiare la Russia a scegliere la diplomazia», apre anche alle tante discusse concessioni territoriali, nella fattispecie della Crimea, sulla scia di quanto ipotizzato anche dal presidente Zelensky. Di contro però le parole di Lavrov spengono l'entusiasmo. A suo dire «Washington e i suoi satelliti sono ancora ossessionati dall'idea di infliggere una sconfitta strategica alla Russia», una logica tutta russa. Anzi, Lavrov minaccia: «Tutti i nostri avvertimenti secondo cui queste azioni inaccettabili (gli attacchi in territorio russo, ndr) avrebbero ricevuto una risposta adeguata sono stati ignorati. La Russia reagirà e nessuno ci impedirà il raggiungimenti degli obiettivi dell'operazione militare speciale», perché, anche a distanza di mille giorni, al Cremlino si fa fatica a chiamarla guerra. Aggiungendo poi, in maniera tragicomica, che «preferiamo sempre risolvere le questioni controverse con mezzi pacifici». Il suo vice Serghei Ryabkov non usa nemmeno perifrasi: «Gli Usa fermino l'escalation altrimenti la situazione diventerà troppo pericolosa per tutti, compresi gli stessi Stati Uniti». Da dove una voce non confermata ha confermato il caos. Alcuni media americani hanno infatti riportato che il presidente Biden, prima di lasciare la Casa Bianca, avrebbe rivolto un ultimo appello al Congresso per ottenere 24 miliardi di dollari in aiuti all'Ucraina per il sostegno militare. Frase, a quanto pare, mai pronunciata, ma tanto è bastato a Elon Musk, stretto collaboratore del presidente eletto Trump (che ieri ha nominato il generale Keith Kellogg come inviato speciale per l'Ucraina e la Russia), per dire «questo non va bene», segnale che con la nuova amministrazione potrebbero cambiare le cose, non in meglio per Kiev.
Ecco perché l'Europa si sta muovendo con forza anche se in ordine sparso.
Il premier slovacco Robert Fico ha detto che sarà a Mosca per incontrare Putin mentre, dopo il caso dell'espulsione del diplomatico britannico da Mosca, è scontro anche con Berlino, accusata dal Cremlino di aver chiuso l'ufficio della tv russa Primo Canale. «Accuse false», la replica, ma la tensione in Europa resta altissima. E il dialogo sempre più lontano.
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