Milano Non solo colleghi perché appartenenti alla grande famiglia dell'Arma dei carabinieri, ma anche mariti e padri di famiglia (hanno entrambi tre figli). Vicini (alloggiano tutti e due in caserma, ad Asso, teatro della tragedia) e praticamente coetanei. Ma diversissimi, incapaci di convivere nel medesimo spazio nel quale si muovono cercando di interagire il meno possibile, tra pareti divise da un disprezzo silente, nutrito da una sottile ma profonda disistima reciproca. Sono i classici opposti che si respingono in questa vicenda il brigadiere Antonio Milia, 57 anni e il suo comandante, il maresciallo Doriano Furceri.
Il brigadiere era stato sospeso dal servizio a febbraio di quest'anno dai suoi superiori di Como dopo che a gennaio aveva minacciato e apparentemente tentato di togliersi la vita con la pistola d'ordinanza, motivo per cui era stato ricoverato nel reparto di psichiatria dell'ospedale Sant'Anna a San Fermo della Battaglia, nel comasco. Eppure per gli specialisti il peggio era passato e, a dirla tutta, anche chi lo frequentava nella vita di tutti i giorni adesso sarebbe pronto a giurare che «stava benissimo» e che i grossi problemi psicologici che lo avevano afflitto erano ormai acqua passata. La commissione medica militare che a Milano aveva esaminato Milia nei mesi scorsi aveva dato il suo via libera, giudicandolo idoneo a tornare in servizio «incondizionatamente», cioè senza limitazione di mansioni. Un parere confortato anche dalla copiosa documentazione prodotta dalla commissione sanitaria del reparto di psichiatria dell'ospedale Sant'Anna di Como, a San Fermo della Battaglia. Furceri, suo comandante no, non lo rivoleva in servizio e si era opposto al suo reintegro, imponendogli di prendesi altri giorni di ferie anche se lui, il sottoposto, aveva appena ripreso il suo lavoro, una decina di giorni fa, il 18 ottobre. Avrebbe avuto origine da qui la furia omicida di Milia.
Per quel che riguarda la vittima, il maresciallo Doriano Furceri, 58 anni, di origine palermitana, aveva fatto una lunga gavetta nelle caserme e di pattuglia sulle strade di mezza Lombardia come Seregno (Monza) o alla compagnia di Merate (Lecco). Una missione in Kosovo nel 2004 gli era valsa una medaglia e, al suo ritorno, il comando, prestigioso, della caserma di Bellano (Lecco), punto di riferimento per tutta la zona della sponda orientale di quel ramo del lago di Como. Lì, in ben diciassette anni di servizio si era occupato di molte questioni. Nel febbraio 2021 era stato però trasferito d'ufficio per incompatibilità ambientale perché «accusato» pubblicamente sui muri del centro storico con scritte a caratteri cubitali tracciate da una mano anonima di insidiare le mogli altrui: «Giù le mani dalle mogli degli altri». Il suo nome non era stato scritto, ma il riferimento a lui con l'invito a togliersi «cintura» e «pistola» era parso chiaro a tutti, anche perché preceduto da insistenti chiacchiere di paese. Lui si era sempre difeso, spergiurando che non era vero nulla e anche la moglie aveva preso le sue parti.
Ma tanto era bastato ai suoi superiori per metterlo prima in ferie forzate e poi per avviare un'inchiesta interna. Era quindi stato trasferito ad Asso per quelle che in maniera asettica e formale, vengono definite «ragioni di opportunità».
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