Dall’ottobre scorso, il generale di Divisione Angelo Michele Ristuccia è alla guida di Kfor, la missione Nato in Kosovo. Un Paese eternamente in bilico in un’area, quella dei Balcani, percorsa da continue tensioni.
Generale, ci può fare un primo bilancio di questa sua missione?
Sicuramente si è trattato di mesi impegnativi. Già dalla fase preparatoria della missione tutti gli indicatori prospettavano lo sviluppo di una situazione complessa, articolata e contestualmente estremamente volatile, così come poi si è prospettata nella realtà. Nel mese di ottobre la definizione, da parte delle Istituzioni in Kosovo, delle misure di applicazione degli accordi stipulati nel 2011, 2016 e 2017 sulla libertà di movimento ha dato inizio a un forte acutizzarsi delle tensioni, in particolare riguardo alla conversione delle targhe, che ha generato una polarizzazione nelle relazioni tra le parti, diretta conseguenza di un deterioramento iniziato già nel 2021, facendo sì che un aspetto prettamente amministrativo, legato a un fattore di alta natura simbolica e identitaria, potesse diventare immediatamente causa di escalation. L’incapacità delle parti di capitalizzare i risultati fino ad allora conseguiti, inclusi gli esiti positivi delle decisioni assunte nell’ambito del Berlin Process, ha poi determinato progressivi innalzamenti di tensione che hanno ulteriormente peggiorato lo stato dei precari equilibri, portando alle dimissioni dei serbi kosovari dalle posizioni occupate nell’ambito della pubblica amministrazione nel nord del Kosovo.
Cosa è successo in quei giorni?
Nel giro di pochi giorni, sindaci, membri dei consigli comunali, poliziotti, giudici, procuratori e impiegati pubblici si sono dimessi provocando una vera e propria paralisi istituzionale e un pericoloso vuoto nella gestione e nella sicurezza delle quattro municipalità del nord del Paese a maggioranza serba (Mitrovica Nord, Zvecan, Leposevac e Zubin Potok). L’intensa pressione diplomatica dell’Unione europea e degli Usa, unita alla presenza di Kfor hanno reso però possibile, nel novembre 2022, il raggiungimento di un accordo tra Pristina e Belgrado per il quale la Serbia avrebbe cessato di emettere targhe con le denominazioni delle città del kosovare e il Kosovo avrebbe evitato ulteriori azioni coercitive (multe e sequestri di autovetture) nei casi di mancata re-immatricolazione dei veicoli circolanti con targhe kosovare.
Cosa significano questi eventi?
Gli eventi che si sono verificati hanno tuttavia evidenziato come ogni equilibrio ripristinato al termine di un momento di tensione si dimostri sempre più precario del precedente.
Ovvero?
In concomitanza con l’avvio dell’attività organizzativa delle elezioni amministrative istituite per rimpiazzare le cariche dei dimissionari, sempre nel mese di novembre, il nervosismo si è riacutizzato e materializzato in scontri che hanno indotto le Autorità locali a rinviare la tornata elettorale al mese di aprile di quest’anno. Tuttavia, una serie di arresti conseguenti alle decisioni dell’autorità giudiziaria nei confronti di presunti partecipanti a quegli scontri e la postura adottata dalla polizia kosovara hanno indotto la proteste dei kosovari serbi, che sono culminate nella realizzazione di blocchi stradali lungo le arterie principali delle quattro municipalità del Nord, innalzando ulteriormente la tensione con conseguenti enormi rischi che la situazione sfuggisse al loro controllo. Il tutto amplificato da una narrativa tesa a influenzare in modo unilaterale gli attori coinvolti e da una concomitante disinformazione che ha innalzato la probabilità che si arrivasse allo scontro fisico e che questo scontro potesse essere provocato non solo da errori di calcolo ma anche da incomprensioni (più o meno volute).
Come si è sciolta la tensione?
Anche in questo caso l’intensa pressione diplomatica dell’Ue e degli Usa e l’interposizione di Kfor (in stretto coordinamento con le altre missioni internazionali presenti sul posto: Eulex, Unmik, Osce) hanno reso possibile che le leadership rappresentative delle due parti potessero ritornare al tavolo delle negoziazioni e ripristinare una seppur precaria normalità, tuttora connotata dal vuoto istituzionale esistente nel Nord del Kosovo. La completa rimozione pacifica delle barricate da parte dei kosovari serbi è stata accolta favorevolmente dalla comunità internazionale, che ha riconosciuto il ruolo decisivo di Kfor, complementare a quello di tutti gli attori che sono stati e sono costantemente coinvolti nel processo di pace, fondamentale per garantire le generali condizioni di sicurezza. Questo stato di calma, ancorché fragile e apparente, ha consentito il raggiungimento degli importanti accordi di Bruxelles del 27 febbraio e di Ohrid del 18 marzo, che fanno ben sperare per un positivo sviluppo della situazione.
Come interpretare queste tensioni continue?
Non rappresentano la vera natura del problema, quanto i sintomi più immediatamente percepibili di esso. Sussiste infatti una sfiducia di fondo tra le parti che condiziona percezioni e assunzioni di responsabilità per decisioni idonee a realizzare un vero cambiamento. Vi sono ancora questioni irrisolte che rischiano di minare la costruzione di un rapporto concretamente orientato al futuro e che gli accordi di queste ultime settimane hanno riportato alla luce.
Qual è stato il suo ruolo in questi frangenti?
Da Comandante della Missione Kfor, ho cercato di sostenere il dialogo tra Pristina e Belgrado, fermamente convinto che la ricerca attiva di un accordo volto a ottenere un clima distensivo sia l’unica soluzione perseguibile per riportare la situazione a un livello di sicurezza idonea a promuovere la normalizzazione delle relazioni. Kfor continuerà a promuovere il dialogo di cui l’Ue si è fatta promotrice, invitando le parti ad impegnarsi in modo concreto al fine di trovare un compromesso per risolvere le questioni in sospeso in modo pacifico.
Come è cambiata la missione nel corso degli anni?
Kfor è schierata in Kosovo da più di 23 anni. Il 12 giugno si celebrano 24 anni dall’ingresso della prima aliquota di personale e mezzi in questo teatro di operazioni. Il contingente multinazionale opera in Kosovo in base al mandato della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con il compito di garantire un ambiente sicuro e protetto nonché la libertà di movimento per tutte le comunità del Kosovo. La sua presenza è indicativa del fatto che ancora molto deve essere compiuto affinché si realizzino quelle condizioni di irreversibile stabilità, idonee a garantire un futuro migliore per tutti i kosovari. Nel 1999, la missione includeva circa 50mila tra uomini e donne provenienti da Paesi membri della Nato, partner e non, sotto comando e controllo unificato. Gli obiettivi originali di Kfor consistevano nello scoraggiare nuove ostilità, stabilire un ambiente stabile, garantire la sicurezza e l'ordine pubblico, smilitarizzare l'Esercito di liberazione del Kosovo, sostenere lo sforzo umanitario internazionale e coordinarsi con la presenza civile internazionale. Da allora la situazione è stata caratterizzata da momenti di significativo progresso nel raggiungimento degli standard di sicurezza e stabilità, ma anche di momenti di forte tensione e stallo. Il miglioramento del contesto di sicurezza ha permesso di ridurre il livello delle truppe prima a 26mila unità, poi a 17.500 nel 2003.
Ci sono stati però anche momenti di crisi…
Una battuta d'arresto verso un Kosovo stabile, multietnico e democratico si è però verificata nel marzo 2004, quando sono emerse nuove violenze tra albanesi e serbi. All’epoca, le unità di Kfor erano sotto attacco e ulteriori 2.500 soldati furono rapidamente dispiegati per rafforzare le unità della missione. Come conseguenza degli sforzi diplomatici e del continuo lavoro sul terreno, la situazione della sicurezza ha continuato a migliorare, seppur in presenza di ulteriori situazioni di tensione, sino a giugno 2009, quando i ministri della difesa della Nato hanno deciso di adeguare gradualmente la posizione delle forze della Kfor verso quella che viene definita una “presenza deterrente”.
Cosa si intende per “presenza deterrente”?
Che, quando appropriato e in base all'evoluzione degli eventi, nel tempo la Nato ridurrà ulteriormente il numero delle forze sul terreno, mentre le restanti forze in teatro si affideranno progressivamente all'intelligence e alla flessibilità. Oggi la missione conta a circa 3.800 unità. Da notare, inoltre, come la graduale diminuzione del numero di forze della Kfor sia stata resa possibile anche dai progressi compiuti dalle Istituzioni e dalle Organizzazioni di sicurezza locali, alle quali sono state gradualmente trasferite molte competenze. Pur non essendo mai cambiato il core del mandato (ovvero quello di garantire libertà di movimento e sicurezza per tutte le comunità del Kosovo) anche la struttura della Missione è stata nel tempo modificata.
Come?
Molte delle attività poste in essere nell’ultimo decennio riguardano il supporto alla governance locale e la ricostruzione, secondo un approccio multidisciplinare e in sintonia con tutti gli attori internazionali in campo: Organizzazioni Internazionali (Ue, Onu, Nato, Eulex ecc). A fronte di questi cambiamenti, l’impegno generale per favorire lo sviluppo di una regione stabile, pacificata e autosufficiente, resta immutato. Sin dall’inizio della missione, Kfor opera in completa trasparenza, in aderenza alla risoluzione e con imparzialità nei rapporti con le diverse etnie presenti in Kosovo. In tale contesto la Nato continuerà comunque a promuovere la stabilità, la sicurezza e la cooperazione nella regione; il nuovo Concetto strategico della Nato, adottato a Madrid nel 2022, riafferma infatti l'importanza della presenza dell’Alleanza Atlantica nell’area del Western Balkans. È utile comunque evidenziare come qualsiasi modifica alla presenza di Kfor rimanga basata esclusivamente su determinati parametri e condizioni da raggiungere, piuttosto che su un calendario prestabilito. Come detto in precedenza, le recenti crisi che si sono manifestate, con i rischi a esse connessi, attestano tuttora l’importanza della nostra postura e della nostra presenza, significando che c’è ancora lavoro da fare per creare le condizioni per una irreversibile stabilità.
Ciclicamente, si rivivono tensioni tra la popolazione serba e quella albanese. Ci sono rischi di una vera e propria escalation?
Gli avvenimenti degli ultimi mesi, le azioni unilaterali intraprese dalle parti, la retorica funzionale al solo proposito di catalizzare le audience interne e disarticolante del dialogo, l’incapacità di trovare soluzioni win-win, il rischio di errori di calcolo e di incomprensione in un momento in cui le tensioni vengono amplificate dalla narrativa di parte, non consentono di escludere a priori qualsiasi scenario.
Qual è la sua opinione personale?
Personalmente, da militare, mi preoccupo di preparare le mie unità ad affrontare il peggiore caso ipotizzabile. Tuttavia, sono fermamente convinto che lo scontro armato non sia realmente nel volere e nell’interesse delle parti. I recenti accordi di Bruxelles e Ohrid fanno ben sperare e i continui inviti della comunità internazionale a sfruttare questa opportunità di raggiungere posizioni convergenti e basate sulla normalizzazione delle relazioni indicano la chiara volontà dei negoziatori di imprimere al dialogo un decisivo passo in avanti. Come Comandante di Kfor ho invitato diverse volte le parti a dare prova di moderazione e approccio costruttivo, astenendosi da provocatorie dimostrazioni di forza e cercando soluzioni basate su negoziati pacifici.
Quali sono le aree a maggiore rischio?
Dal momento che negli ultimi mesi la situazione nella parte settentrionale del Kosovo ha raggiunto più volte livelli d’allerta, Kfor ha concentrato i suoi sforzi in quell’area. Tuttavia, nel resto del Kosovo la situazione è rimasta tranquilla. Questo non vuol dire che l’impegno complessivo abbia cambiato priorità. La nostra attenzione è rivolta su tutta l’area e in coerenza con il mandato fissato dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu 1244 del 1999.
Qual è la situazione ora?
In sintesi, attualmente la situazione nell’area di operazione si può definire calma, ma allo stesso tempo estremamente fragile, volatile e imprevedibile. Sinché le tensioni cresceranno, l’incertezza tra la popolazione aumenterà e con essa il rischio che un singolo incidente possa far deteriorare le condizioni di sicurezza sul terreno, compromettendo i risultati raggiunti nel corso degli anni. La capacità di intervenire con imparzialità e trasparenza è e continuerà a essere prioritaria per Kfor al fine di creare i presupposti per lo sviluppo, il consolidamento e il progresso del dialogo tra Belgrado e Pristina. Per questo motivo, Kfor rimane vigile e continua a monitorare la situazione, adattando continuamente la postura in base all'evoluzione della situazione sul territorio.
La guerra in Ucraina sta in qualche modo alterando gli equilibri all'interno del Kosovo?
La guerra in Ucraina ha alterato gli equilibri mondiali e influenzato tutta l’Europa. In tale situazione il Kosovo, per la sua posizione geografica, il percorso storico compiuto e la fitta rete di relazioni internazionali che insistono in questa area, è soggetto all’influenza di tutto ciò che accade ai margini del continente. La regione è sempre stata oggetto di forte competizione geopolitica, di sforzi convergenti e interessi divergenti. Le tensioni passate e recenti sono, comunque, da attribuire a diversi fattori locali, piuttosto che come conseguenza della guerra in Ucraina. Come dichiarato in diverse occasioni dal segretario generale, Jens Stoltenberg, la Nato esorta da tempo la Russia a svolgere un ruolo costruttivo nei Balcani occidentali; sebbene sembra che avvenga regolarmente l’opposto. Poiché l'Europa si trova ad affrontare la peggiore crisi degli ultimi decenni a causa del conflitto in Ucraina, è ancora più importante che Belgrado e Pristina si impegnino in buona fede e trovare un comune accordo che garantisca la stabilità dell’area.
Lo scorso novembre alcuni report dell'intelligence parlavano della presenza della Brigata Wagner al confine tra Serbia e Kosovo. È davvero così?
In realtà non abbiamo evidenze che provino tali presenze, anche se i media locali e le narrative di parte ne fanno continua menzione, imputandone spesso l’affiliazione al conflitto tra Russia e Ucraina. Noi seguiamo con attenzione ogni sviluppo della situazione, preoccupandoci soprattutto di non escludere pericolosi segnali deboli che potrebbero essere significativi per decodificare imprevisti sviluppi sotto il profilo della sicurezza, della stabilità e della libertà di movimento. Inoltre, riteniamo fondamentale il coordinamento con le istituzioni locali e in particolare con la Polizia del Kosovo, su cui ricade la responsabilità dell’applicazione della legge e pertanto di esercitare le funzioni connesse con il law enforcement e l’implementazione del rule of law. Per questo, i militari di Kfor e i carabinieri dell'Unità multinazionale specializzata (Msu) sono presenti sul territorio, sviluppando attività di pattugliamento finalizzate a dimostrare la nostra presenza, esprimere deterrenza e se necessario intervenire qualora la situazione lo richiedesse, continuando al contempo a monitorare l'ambiente informativo e mantenendo un continuo collegamento con le altre organizzazioni internazionali i cui compiti sono complementari ai nostri.
La Cina ha inviato missili alla Serbia. Come legge questa mossa?
Ho recentemente incontrato il Capo di Stato Maggiore della Difesa serbo, con cui intrattengo regolari e continui scambi di informazioni finalizzati a ridurre le tensioni, anticipare i potenziali problemi e contrastare la disinformazione. Posso senza dubbio asserire che tra le rispettive Forze militari vi è una consolidata cooperazione e che anche nei momenti di maggiore tensione non si è mai arrivati al contrasto. Ognuno ha esercitato il proprio ruolo nel rispetto delle funzioni reciproche e con la finalità di evitare che la situazione degenerasse. La Serbia è un paese partner della Nato. La collaborazione, costruita negli ultimi decenni, è attagliata ai bisogni e alle necessità della Missione e porta benefici a entrambe le parti. La Nato rispetta la postura della Serbia, uno Stato sovrano che legittimamente acquisisce tipologie di armamento in piena autonomia.
Perché i Balcani sono così importanti per il nostro Paese?
L’Italia ha sempre partecipato a tutte le missioni di pace nei Balcani sin dal loro avvio, svolgendo un ruolo di primo piano ovunque abbia schierato le proprie unità. Questa presenza è stata sempre apprezzata per la qualità e il livello professionale dell’impegno intrapreso. La storia contemporanea ci ha insegnato quanto la nostra sicurezza sia legata a quella di questa regione, soprattutto in un momento come quello attuale in cui, a una drammatica crisi che ha colpito il vecchio continente, bisogna rispondere anche contribuendo alla stabilità del resto dell’Europa. Questa considerazione vale soprattutto adesso, posto che ci confrontiamo con un contesto geopolitico iperconnesso, ipercontestato, ipercongestionato, volatile, incerto e ambiguo, in cui le conseguenze di eventi che si manifestano in una determinata area proiettano i loro effetti nello spazio e nel tempo con una logica difficilmente prevedibile. Dal 1999, l'Italia è in prima linea in Kosovo. L'incremento delle nostre forze, con l'assunzione del comando della missione Nato, fa parte di un impegno che caratterizza l'interesse nazionale per un'area di forte competizione geopolitica, laddove la pace e la stabilità giocano un ruolo determinante per gli equilibri internazionali. In questo momento, il contingente italiano, attraverso il coordinamento del Comando operativo di vertice interforze (Covi), rappresenta il maggiore contributore tra i 27 Paesi che compongono la Kosovo Force. Quale 13° comandante italiano dei 27 internazionali che si sono succeduti dall’inizio della missione, sento il peso della responsabilità di questo incarico, soprattutto in una situazione complessa, che rappresenta un momento senza precedenti nella storia contemporanea. Kfor e il contingente italiano, come dichiarato dal nostro ministro della Difesa, Guido Crosetto, riesce a dialogare con la popolazione albanese e con la comunità serba allo stesso modo, facendosi rispettare da entrambe le parti e valorizzando le capacità di mediazione e relazione, da sempre caratteristiche distintive dei valori che contraddistinguono la nostra civiltà e il nostro Paese. Grazie al lavoro svolto dai nostri militari in tutti questi anni, l’Italia è accettata come pacificatore e mediatore tra tutte le comunità che vivono in Kosovo.
Nel corso degli ultimi anni, diversi report hanno lanciato l'allarme sul pericolo jihadista in Kosovo. È un pericolo reale?
Il terrorismo è un pericolo globale e nessuna nazione può ritenersi immune. Il contrasto e la repressione di queste attività ricade nei compiti delle Autorità locali e in particolare della Kosovo Police, che sta agendo in modo efficace avverso la radicalizzazione di soggetti altamente influenzabili. La stessa Kosovo Intelligence Agency sta svolgendo, in tale ambito, un lavoro di primo piano. Anche l’ordinamento giudiziario Kosovaro ha attualmente al vaglio diverse misure per l’inasprimento delle pene verso i soggetti che si macchiano di crimini derivati dal terrorismo internazionale e similari. Per quanto riguarda Kfor, considero di prioritaria importanza agire in modo da proteggere la sicurezza dei nostri contingenti e siamo molto attenti nel valutare e rispondere a ogni forma di minaccia, inclusa quella connessa con l’estremismo religioso.
Nell'ultimo mese si è parlato di un accordo tra Belgrado e Pristina entro l'anno, volto a normalizzare le relazioni tra i due Paesi. Vede questa possibilità effettivamente concreta?
Attualmente il processo di pace sta vivendo una fase delicata, incentrata sul dialogo tra le parti, soprattutto sul piano politico e diplomatico. Lo sforzo è finalizzato alla identificazione di un accordo che soddisfi entrambe le parti; intento che si confronta con un passato segnato da una significativa differenza di vedute e di interessi tra di esse. La Comunità Internazionale sta impiegando un’ingente quantità di risorse in questo processo, facendosi carico della mediazione per il raggiungimento della normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo tramite l’Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell e il Rappresentante speciale per il dialogo tra Belgrado e Pristina, Miroslav Lajčák. Il supporto Usa, in tale contesto, è significativo. L’ultimo incontro tenutosi ad Ohrid (Nord Macedonia) lo scorso 18 marzo, ancorché non firmato, impegna le parti a normalizzare le proprie relazioni, tenendo fede agli accordi già concordati in passato e su cui esistono numerose situazioni di stallo. La popolazione ha bisogno di normalità. Non esiste crescita senza sicurezza e stabilità. Questi due pilastri rappresentano le condizioni necessarie per lo sviluppo. Onorare l’impegno intrapreso apre soltanto orizzonti migliori a tutte le comunità interessate. Sono convinto che sia nell’interesse di Belgrado e Pristina trasformare la sfida delle diversità in un’opportunità che solo il dialogo dischiude. Ritengo improbabile che le rispettive leadership non abbiano compreso l’importanza di ciò. security provider nel perimetro di competenze e legittimità segnato dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1244 del 1999. Voglio essere ottimista e bisogna esserlo. Kfor continuerà, in tale contesto, a svolgere il suo ruolo di
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