Le lacrime di chi non riesce a partire: "Moriremo"

Gli interpreti dei soldati italiani: "Abbiamo il volo, ci impediscono di entrare in aeroporto"

Le lacrime di chi non riesce a partire: "Moriremo"

«Per favore, chiama tu qualcuno della Difesa. Sono fuori dal gate dell'aeroporto e nessuno ci viene a prendere. Sono con la mia famiglia, coi miei bambini. Siamo tanti, credo migliaia. Vedo militari americani, ma anche talebani aggirarsi qua attorno. Non riesco a capire che cosa devo fare»: la voce rotta dal pianto è quella di Mustafa, uno degli ex interpreti della coalizione, che ha lavorato per anni per il contingente italiano. Non era nella lista di imbarco, non aveva fatto in tempo a comunicare la sua presenza a Kabul, chi scrive riesce a raggiungere i responsabili delle operazioni di esfiltrazione e ora Mustafa è tra coloro che dovrebbero partire nelle prossime ore.

Il Covi, Comando operativo di vertice interforze, guidato dal generale di Corpo d'Armata Luciano Portolano, sta facendo il possibile e senza sosta per portare tutti in un rifugio sicuro, ma i rischi sono altissimi. «Siamo stati nascosti dieci giorni - racconta l'interprete - mi sono cambiato i vestiti, non mangiamo da 48 ore perché il cibo è finito, ma resistiamo, dobbiamo resistere». Il suo inglese non perfetto consente comunque di cogliere la gravità della situazione.

Passano le ore e continua ad aggiornarci. «È tutto difficile - prosegue - abbiamo paura di morire. All'alba hanno ucciso delle persone a sangue freddo solo perché tentavano di entrare in aeroporto. Devo essere cauto per la mia famiglia». Poi arriva la notizia: il volo è stato cancellato. Si riprova oggi. Ma almeno Mustafa ha un appuntamento. Quando uscirà il giornale dovrebbe essere già sul C-130 in volo verso l'Italia. Ma la notte è lunga, la paura tanta e il terrore che i talebani arrivino incombe. «I miei bambini - dice ancora - mi chiedono di continuo se ci uccideranno. Benedico te e la tua famiglia. Grazie per ciò che stai facendo. Quando sarò in Italia ti chiamerò. Voglio che beviamo insieme un cappuccino. Mi piace il cappuccino, in base a Herat lo bevevo sempre. E magari faremo un picnic. Mia moglie dice che ti preparerà dei piatti afghani».

Due studenti disperati piangono al telefono: «Stamani ci hanno picchiati. Siamo già stati in Italia a studiare e poi siamo rientrati per venire a trovare i nostri cari. Appena arrivati di fronte all'aeroporto abbiamo visto i talebani. Avevano i fucili. Abbiamo iniziato a scappare, ma ci hanno raggiunti. Abbiamo preso molte botte, ma la folla intorno ci ha salvati, ciò che non è toccato a noi è toccato a qualcun altro. Qui è l'inferno».

Un altro interprete. Anche lui sarà sul volo di oggi. «Il problema non è salire sull'aereo - ci spiega-, ma raggiungere l'aeroporto e poi riuscire a entrarci. I talebani ci cercano. Solo la presenza dei militari americani per ora ci ha mantenuti in vita. Qui è tutto pericoloso, ovunque vai puoi incontrare la morte. Io ringrazio gli italiani per quello che stanno facendo. Non è vero che ci hanno abbandonati, stanno provando a riportarci a casa. Allah vi benedica tutti. Se arriverò in Italia mi farò un'altra vita. Ho solo voglia di dormire senza sentire gli spari».

Arriva poi un ultimo messaggio, è ancora di Mustafa, poi una chiamata. «Devo staccare, siamo in pericolo - racconta piangendo -, i talebani sono davanti a noi. Prega perché ce la facciamo. Se ce la faremo ti chiamerò. Se non sentirai niente ricordati di noi. Chi ha provato ad aiutarci è una sorella, comunque vada».

In sottofondo spari e colpi più forti e il pianto disperato dei bambini. Proviamo a richiamare, sentiamo un sussulto, il telefono squilla a vuoto. Poi il silenzio e la doppia spunta di whatsapp non appare più. Sarà una lunga notte.

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