La Strage di Erba è un Vaso di Pandora che non si deve aprire. Rosa Bazzi mostra il pollice poi piange a dirotto, stretta nel suo giubbino nero. Olindo Romano impotente, lo sguardo perso. I legali lasciano alla spicciolata l'aula del Tribunale di Brescia. Il verdetto della Corte d'Appello, pronunciato in trenta secondi e neanche, conferma l'ergastolo per i due coniugi. Il richiamo all'articolo 634 e la frase «istanza di revisione inammissibile» arrivata dopo oltre quattro ore di camera di consiglio amareggia ma non ferma Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D'Ascola e Patrizia Morello, che nel salottino dell'albergo a poca distanza dal Tribunale stanno già discutendo il perimetro del ricorso in Cassazione. L'ennesima guerra di carte bollate, da qui a novanta giorni, si giocherà tutta sulle motivazioni con cui il presidente Antonio Minervini dovrà giustificare la decisione di dichiarare «inammissibili» delle prove che solo a gennaio erano «astrattamente idonee a infrangere il giudicato», cioè a riaprire il processo.
Della «tanta carne al fuoco» di cui parlava Minervini lo scorso 16 aprile, del lavoro di periti ed esperti, possibile che non sia rimasto nulla? Le intercettazioni sparite, quelle mai entrate a processo sul mancato riconoscimento di Olindo come aggressore, il «ricordo arricchito» causa amnesia anterograda di cui avrebbe sofferto il supertestimone Mario Frigerio secondo il massimo luminare italiano nel settore Giuseppe Sartori, le perizie dell'ex Ris Marzio Capra sulla macchia di sangue mal repertata trovata sul battitacco, la pista del regolamento di conti per droga con l'ombra della 'ndrangheta, l'impossibilità per Valeria Cherubini - ancora viva all'arrivo dei soccorritori - di fare le scale per la ferita al muscolo psoas della coscia, la possibile «frode processuale» ipotizzata nella sua richiesta di revisione dal sostituto Pg Cuno Tarfusser che si dice «schifato» dal verdetto e «da una magistratura che ha perso il metodo del dubbio».
Di questi dubbi non si è mai discusso come il rito prevederebbe, è il ragionamento degli avvocati. Andare a dibattimento significava valutare le prove: «I procedimenti di revisione finiscono con un'ordinanza di inammissibilità - spiegano - se sono fissate le udienze e si arriva a una sentenza vanno sentiti i testimoni, cosa che non è stata fatta. Faremo valere questo vizio di legittimità». E la giurisprudenza consolidata della Cassazione sembrerebbe dar loro ragione. In quel caso la richiesta di revisione dovrebbe essere presentata alla Corte d'Appello di Venezia, competente su Brescia. La Procura generale tira un sospiro di sollievo, il Procuratore generale Guido Rispoli difende «la piattaforma di prove e indizi» alla base della sentenza.
Ma chi glielo spiega adesso a Olindo e Rosa che si ricomincia tutto da capo? «Sono fiducioso sul nuovo processo», avrebbe detto pochi giorni fa Olindo a Schembri, ignaro degli alambicchi processuali a cui adesso dovranno ricorrere i suoi legali. Anche chi vede nel netturbino e nella moglie due spietati assassini pensava che qualcosa alla difesa sarebbe stato concesso. C'è chi sorride per un verdetto tanto inaspettato quanto rassicurante, che consegna in redazione una verità (im)perfetta per farci due clic e un titolo di giornale, e chi se ne frega delle tante «aporie» di cui parla la sentenza di Cassazione. Chi li considera due innocenti mandati al massacro con la promessa di una cella matrimoniale, come i tanti ragazzi accorsi all'udienza, resta sgomento. Un'amarezza palpabile, che fa male.
Perché ripaga la loro voglia di verità con il sapore amaro di una giustizia che decide di non decidere, di non (ri)giocare la partita processuale, lanciando la palla in tribuna e lontano da Brescia il calice amaro del possibile errore giudiziario.
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