Due miliardi di danni. È il prezzo che la comunità marchigiana dovrà pagare per le devastazioni portate dai fiumi nella notte fra giovedì e venerdì. Le case distrutte, gli sfollati, le aziende aggredite dall'acqua, l'economia in tilt. La portata del disastro è ancora tutta da stimare, ma l'idea che i tecnici si stanno facendo dello scempio, fra un sopralluogo e l'altro, va in quella direzione. «Non sarà un miliardo - la prende alla larga il governatore delle Marche Francesco Acquaroli - e forse non saranno nemmeno dieci». Calcoli ancora ballerini, con il fango, ancora da togliere, e due vittime da ritrovare.
Due miliardi e altri due per mettere in sicurezza il territorio, come si predica dal 1986 quando furono stanziati i primi fondi per irrobustire gli argini del Misa a Senigallia.
Tre alluvioni dopo, tocca, come sempre in Italia alle procure cercare di capire cosa non ha funzionato. Ancona e Urbino sono al lavoro su una serie di reati che fanno paura anche solo a nominarli: omicidio plurimo colposo e inondazione colposa. Ad Ancona si passa alla moviola la catena della comunicazione: la Regione non ha messo in guardia i comuni, nè prima, quando si pensava a possibili perturbazioni in Umbria, nè dopo, quando arriva il finimondo.
In realtà, come emerge da una prima ricostruzione di quelle drammatiche ore, le telefonate ci fu sono ma partono dopo le 22. A chiamare é un operatore, il solo presente nella sala operativa, perché l'allerta era giallo. E le norme regionali dicono che con quel colore una persona nella cabina di comando è più che sufficiente. Fra le 21,30 e le 22 la situazione precipita e l'operatore si mette al telefono: chiama i comuni, non i sindaci, e prova a lanciare l'allarme ma ormai è tardi. «Dal punto di vista della dinamica degli eventi - afferma ai microfoni del tgr Marche il procuratore capo di Ancona Monica Garulli - quello che si riscontra in questo momento è che non c'è stato un allerta da parte della Regione Marche nei confronti dei Comuni». Una frase che sembra indicare almeno un sospetto, se non una colpa e che peró viene mitigata dalle successive parole: «Le indagini sono in una fase molto iniziale. Tutte le ipotesi ricostruttive sono prese in considerazione». «Si è trattato - è la replica della Protezione civile regionale - di un fenomeno meteo impossibile da prevedere nella sua intensità e sviluppo».
È facile immaginare che su questioni così spinose si svolgerà nei prossimi mesi una guerra di perizie e controperizie. Per ora i Carabinieri forestali acquisiscono tutti i dati meteo sulle precipitazioni previste alla vigilia dell'uragano, i tabulati telefonici di tutti i soggetti interessati ai bollettini meteo e quelli relativi alle, chiamate di soccorso arrivate al 112. C'è poi tutto il tema delle opere finanziate e mai realizzate. «Servono risorse e un piano nazionale per la manutenzione» è l'appello di Acquaroli. Vero e peró le risorse e i piani c'erano già, addirittura da più di 35 anni, ma non sono mai diventati realtà.
E qui l'inchiesta, già difficile, si fa se possibile ancora più complessa. Bisogna orientarsi nel labirinto delle competenze e della burocrazia italiana per capire quello che la vox populi sa già benissimo: in Italia è quasi impossibile realizzare opere di interesse pubblico in modo lineare e chiaro.
Per paradosso si fatica ad individuare un colpevole perché nel caos normativo ce ne potrebbero essere tanti, ovvero nessuno. Un ragionamento che vale per inondazioni, crolli e pure per la,pandemia.
La mancata istituzione della zona rossa in provincia di Bergamo è al centro di un'indagine articolata che cerca di scovare incolpevole nei continui rimpalli fra Roma e Milano. La ricerca delle responsabilità non sarà facile nemmeno a Senigallia
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