I l 7 marzo 2002 alle 1,30 Shlomi Harel, 23 anni, cameriere per fare un pò di soldi dopo la tzava, un orecchino a sinistra e due bulloni a destra, il tatuaggio sul braccio e i capelli a spine, vede un giovane grassoccio che discute con la guardia sulla porta del Cafè Cafit, a Gerusalemme, pieno centro, Emek Refaim. Ha imparato nell'esercito come si fa a identificare una persona che non lo voglia: lo si fa chiaccherare. Gli chiede tutto quello che gli viene in mente: «Dove vai, chi sei, cosa vuoi». Quello risponde solo «non parlo ebraico» in ebraico. «L'ho spinto senza violenza ma con tutto il mio peso verso l'angolo. Non pensavo a niente». Shlomi mi ha raccontato che il ragazzo sudava e balbettava. Il pubblico si appiattisce terrorizzato. «Kmo machina, come una macchina gli ho tolto lo zaino dalle spalle. Mi è caduto, si è aperto, ho visto i fili... Ho avuto fortuna, non è esploso. Ho raccolto lo zaino da terra, l'ho portato nel vicolo. Pensavo: se salta ora ci faccio la figura del cretino perché moriamo tutti lo stesso. Fra eroe e cretino, il confine è quasi nulla. Ma ho anche pensato: meglio che muore uno solo, se ci riesco, piuttosto che tanti... c'erano decine di persone al caffè».
Questa è l'arma più importante di Israele contro il terrorismo: la sua gente, i cittadini. Il trenta per cento dei terroristi sono stati neutralizzati da civili, passanti di tutte le età e condizioni sociali, giovani in blue jeans, ragazze con gli shorts o con la divisa, intellettuali di Tel Aviv e religiosi con i riccioli laterali. Uno di questi ha addirittura usato la sua busta porta-tefillim come prima arma per colpire l'accoltellatore. Un altro l'ha annichilito tirandogli in testa la chitarra che stava suonando, un altro con l'ombrello, un altro ancora con il bastone del selfie: c'è chi gli ha tirato una sedia addosso, chi l'ha spruzzato di spray col pepe, e chi infine, aveva un'arma e gli ha sparato. Pochissimi se la son data a gambe levate, quasi tutti sono rimasti per salvare qualcuno in pericolo o di sono buttati nella mischia per bloccare il terrorista (...)
Shlomi è erede ancestrale dello spirito che salva Israele dal terrore, dalla fuga, dal vivere sotto l'insegna della paura: che gli consente, in breve, di sopravvivere felicemente. Shlomi è elastico e adattabile, e non è viziato. Perché? Perché agisce in lui la resistenza appresa nei secoli che ha consentito la sopravvivenza del popolo più perseguitato della Storia, lo ha salvato dalla depressione, lo ha reso creativo; che dopo i pogrom e le persecuzioni lo ha spinto, invece che a farsi da parte, a rimettersi al centro della storia con l'attaccamento alla patria antica-nuova del popolo ebraico. L'idea del valore della propria patria e del proprio popolo, poco diffusa in Europa dove l'autofustigazione è costume corrente, dell'idea che ci sia qualcosa da difendere che vale davvero la pena consente oggi di essere il numero uno nella lotta al terrorismo. Lo spirito di disciplina che la vita spartana e militare inducono per tre anni e poi nel servizio di riserve anche nei ragazzi più viziati, più bon vivant, più gaudenti (e ce ne sono tanti) consente di ritrovare, nonostante un dissenso micidiale fra le varie parti politiche e religiose, un'unità niente affatto scontata (come si vede in Europa) di fronte alla lotta e anche una buona forma fisica (...)
Ci sono molti episodi veri in cui un soldati di Israele si butta su una bomba per salvare i suoi compagni.
È un eroe in cui convivono l'idea di vita tranquilla, l'irrisione per la pompa e la retorica e l'eroismo: se Shlomi non fosse stato pronto ad afferrare la bomba, come centinaia, migliaia di altri eroi silenziosi, Israele non esisterebbe più.
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