«Il ritiro è un fase molto delicata e rischiosa perché le forze diminuiscono e il contingente incomincia scoprirsi. Non è una operazione logistica, ma di alta valenza operativa da eseguire con molta attenzione». Il generale Marco Bertolini, già comandante della Folgore, delle Forze Speciali e dello Stato Maggiore Nato a Kabul non parla mai a caso. Ancor meno se gli si chiede dell'imminente ritiro italiano dall'Afghanistan. Anche perché nell'ultimo incarico prima del congedo (2016) ha guidato il Coi, il Comando Operativo Interforze da cui dipendono operazioni come quella. «Fin dal 2015 si parlava di un probabile ritiro e dunque io stesso ho pianificato varie ipotesi di ripiegamento».
Con quali difficoltà?
«L'Afghanistan è un paese senza porti. E senza ferrovie. La più vicina è in Tagikistan o Turkmenistan. L'unica vera strada degna di questo nome è la ring road l'enorme anello asfaltato che gira attorno al massiccio dell'Hindu Kush».
Quindi come ce ne andremo?
«Inizieremo ripiegando per via aerea i materiali non indispensabili per la sicurezza. Ma il nostro mezzo più grosso l'Hercules C-130 è un velivolo tattico. Dunque dovremo noleggiare aerei da trasporto Ilyushin o Antonov russi o ucraini. Ma dovendo usarli un po' tutti dovremo coordinarci con gli altri contingenti. Non penso useremo convogli terrestri verso Karachi. Il personale, invece, partirà per ultimo usando voli charter da Herat o Kabul».
Gli americani di solito abbandonano molti mezzi...
«Noi non siamo americani, non ce lo possiamo permettere. Abbandoneremo solo i container abitativi di Herat, non di certo i mezzi. Una volta rimpatriati e ricondizionati torneranno operativi».
Come ci difenderemo da possibili attacchi?
«Dobbiamo articolare le forze e decidere l'aliquota operativa che resterà fino all'ultimo. Deve essere una forza non coinvolta nelle attività di rientro, concentrata solo su protezione e sicurezza. Gli accordi con gli altri contingenti garantiranno una reciproca copertura e l'uso di risorse comuni, come i droni, per l'intelligence e il controllo aereo. Ma le informazioni servono a poco senza una riserva operativa pronta a reagire combattendo».
Chi resterà per ultimo?
«Abbiamo un'aliquota di alpini paracadutisti che presumibilmente garantirà la sicurezza fino alla fine. Ma non saranno i soli. L'attività di difesa non può essere demandata a piccoli gruppi di specialisti, necessita di una massa critica in grado di reagire organicamente. Quindi almeno una o due compagnie di fucilieri».
Quali sono le minacce più probabili?
«Al massimo colpi di mortaio e missili capaci di ritardare le operazioni aeree. Ma è una minaccia contenuta perché sia l'esercito afghano, sia i nostri conoscono bene la zona. E comunque i talebani hanno tutto l'interesse a farci partire. Un blocco del ritiro ritarderebbe la loro entrata nel governo del Paese».
Cosa cambierà per gli alleati afghani?
«Le forze armate afghane un tempo debole e inaffidabili, contano oggi su 400mila uomini fra polizia ed esercito. Grazie anche al supporto Nato sono oggi in grado di controllare le aree più abitate. Ovviamente serve un accordo vero tra talebani e governo».
L'Afghanistan ci è costato oltre 50 vite e più di 8 miliardi di euro. Ne è valsa la pena?
«Dire di sì sarebbe un cinismo imperdonabile. Anche perché ai caduti s'aggiungono centinaia di feriti gravissimi. Dunque quella è una perdita incolmabile.
Ma se guardiamo ai risultati operativi va detto che - oltre a mettere l'esercito afghano in grado di operare autonomamente - siamo anche riusciti a garantire alle nostre Forze Armate una nuova dottrina, nuove procedure operative e nuovi mezzi. Senza l'Afghanistan saremmo ancora fermi al contrasto delle forze del Patto di Varsavia».
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