Su una panchina del cortile di Montecitorio, frequentato in epoca Covid solo da deputati in mascherina, Massimo Bitonci, leghista veneto, interpreta la confusione che sta avvenendo proprio in quel momento in aula: «Siamo tornati a trenta anni fa, quando per inviare un segnale al governo, i partiti di maggioranza facevano mancare il numero legale». In uno dei corridoi che costeggiano il cortile, Luciano Pizzetti, deputato del Pd, un esperto in materia, analizza con il distacco del professionista quei segnali di fumo. «C'è un malessere per ora sopito nel mio partito osserva e un malessere palese tra i grillini. Lì dentro c'è chi vuole farsi altri due anni di Parlamento, ma non crede più a niente. E lancia segnali di insofferenza. Come si faceva al tempo del proporzionale. Poi ci sono i limiti di questo equilibrio politico: come si può pensare di governare una fase d'emergenza con una maggioranza che è minoranza nel Paese, composta dallo sconfitto di ieri (il Pd) e lo sconfitto di oggi (5 stelle)? La contraddizione di uno stato d'emergenza senza il Mes, ne è la dimostrazione». Parole che fanno la felicità di Renato Brunetta, che con il tono di chi l'avevo detto, sentenzia: «La maggioranza si è liquefatta: o un governo di unità nazionale; o i tecnici».
Forse non si arriverà a tanto anche perché i grillini «no creed» sono pronti ad ingoiare tutto, ma l'immagine di una Camera dove per ben due volte è mancato il numero legale, non su corbezzole ma sul provvedimento con cui Giuseppe Conte ha chiesto al Parlamento di allungare fino a gennaio lo Stato d'Emergenza, dimostra davvero che qualcosa non va. Sembra un ritorno ai rituali di tanti anni fa, quando, nella Prima Repubblica, i partiti della maggioranza inviavano segnali di questo tipo al governo per attenzionarlo sulla propria insofferenza. Oggi in un altro voto sicuramente tutto andrà liscio, ma i numeri di ieri non lasciano dubbi, la lancetta del barometro che misura l'umore della maggioranza e a metà strada tra il «malessere» e la «poca attenzione»: sono mancati all'appello il 40% dei voti dei renziani (12 su un totale di 29), più del 30% di Liberi e uguali (4 su 11), il 40% dei grillini (80 su 197) e altrettanti del Pd (42 su 91). Poi, naturalmente, tutti hanno tirato fuori la storia del Covid, delle missioni e quant'altro, ma lo scarto è troppo ampio e quel voto troppo fatidico (viste le polemiche che lo hanno preceduto), per non assegnargli un significato politico.
Come nelle coalizioni di un tempo, il premier non gode di una sorta di delega su tutto, né i leader hanno carta bianca. E più si avvicina l'avvento del «proporzionale» e più quei meccanismi torneranno in auge: quei ragionamenti da Zingaretti a Renzi, su «vertici», «verifiche», «tagliandi» e «rimpasti» hanno il sapore di un tempo. Una fenomenologia più complessa, che richiede una presenza costante come pure un'opera di convincimento più attenta dei gruppi parlamentari. Tant'è che proprio Zingaretti si è accorto ieri era ora - che non può fare il segretario del Pd e il governatore del Lazio contemporaneamente.
Insomma, più di politica. Di quella di una volta, meno semplificata di quella di oggi. Quella in cui i partiti storici eccellevano. «Ancora non c'è una legge spiega Pier Luigi Bersani ma già tutti ragionano come se ci fosse il proporzionale. Le identità dei diversi partiti assumono un valore maggiore. Anche perché la stagione della semplificazione sovranista-populista è alla fine. E si sentirà sempre più bisogno a destra di un'area liberale».
È nelle cose. Il proporzionale muterà la geografia politica del Paese. Ed esalterà le aree centrali, moderate, quelle che dialogano con tutti. È quello che avviene al Parlamento Ue dove le estreme sono emarginate, un Parlamento che è frutto, appunto, di una legge elettorale molto simile a quella che la maggioranza giallorossa vorrebbe introdurre in Italia. È la ragione per cui Giancarlo Giorgetti, il più attento ai cambiamenti tra i leghisti, predica una virata della Lega su posizioni meno antieuropeiste e più moderate, proprio per evitare che il Carroccio venga emarginato nel gioco politico. Ieri davanti a Massimo D'Alema, ma con la testa a Salvini, la testa d'uovo leghista non ha avuto neppure problemi a parlare di sconfitta in Lombardia nelle comunali: «Abbiamo perso e se si perde sarebbe assurdo non ammetterlo»». Né ha avuto remore a fare una previsione che scalfisce una delle certezze del sovranismo nostrano: «Negli Usa vincerà Biden. Ma non sarà un voto ideologico, sarà un voto contro. La volta scorsa volta fu contro la Clinton, questa volta contro Trump».
Si prepara una mezza rivoluzione. Siamo solo ai prolegomeni. Dentro il Palazzo e fuori. Ad esempio, le coalizioni sono meno compatte di quello che uno è portato a credere. «A Lecco osserva il forzista Cattaneo abbiamo perso perché i leghisti non hanno votato un candidato che considerava troppo moderato». In Abruzzo gli azzurri sono andati da soli e non hanno appoggiato i candidati del Carroccio a cominciare da quello di Chieti. E ancora adesso Raffaele Fitto accusa la Lega di non averlo appoggiato fino in fondo nelle regionali pugliesi per gelosia verso Fratelli d'Italia. Fenomeni determinati da un'esaltazione delle identità, tipici del proporzionale. «Dovremo tutti ripensarci è la tesi di Maurizio Martina perché il proporzionale renderà più fluide le alleanze».
La verità è che di fronte al rifiuto del presente, consapevolmente o meno, c'è una sorta di corsa a percorrere il tempo a ritroso. I vizi di ieri sono diventati le virtù di oggi. Come la preferenza, un tempo madre di tutti i mali e ora bandiera della ribellione contro gli eletti decisi a tavolino dai vertici di partito. «Il 90% dei parlamentari scommette il piddino Umberto Del Basso De Caro vuole le preferenze. E se Zingaretti dice no la metà dei gruppi parlamentari non seguirà Zingaretti».
Ma se così stanno le cose, se si ragiona con «il proporzionale» in testa, tanto varrebbe approvare subito la legge. «Dovrebbe essere ammette il piddino siciliano, Fausto Raciti una priorità. Ci sarebbe un linguaggio comune e tutti si abituerebbero alle nuove regole del gioco».
Un'ipotesi che, però, uno dei protagonisti del confronto sulla legge elettorale, Stefano Ceccanti, esclude tirando in ballo una categoria che faceva il bello e il cattivo tempo nei parlamenti di tanto tempo fa.
«Il partito trasversale dei peones confida tra il serio e il faceto è pronto a bocciare qualsiasi legge elettorale prima del semestre bianco, per non rischiare le elezioni anticipate. Sembra uno scherzo ma non è così». «I peones», mancavano solo loro all'appello.
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